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L’Italia non è un Paese per “vecchi”

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A Narnali per mesi è andato in onda un film dell’orrore. A Narnali non è sufficiente dire che “qualcosa non ha funzionato” o “qualcosa si è rotto”.

A pochi mesi dalla vicenda che arrivò sulle prime pagine dei giornali, tre colleghi indagati sono stati licenziati dall’Azienda Sanitaria, a loro carico gli indizi sono stati sufficienti per applicare la massima pena prevista dagli Istituti Contrattuali dei Provvedi menti Disciplinari.

Narnali è solo la punta di iceberg enorme, basta andare a farsi un giro sul canale youtube è digitare “maltrattamento anziani” e compaiono decine di video girati dalle forze dell’ordine in cui si possono “apprezzare” le gesta di chi ha scelto come professione quella di “cura e assistenza”.

E’ un esercizio intellettuale complesso quello di commentare il licenziamento di tre colleghi, nessuno si offenda se continuo a chiamarli così: sarebbe troppo facile chiamarli con altri termini dimenticando che facevano parte della nostra famiglia professionale.

Proprio perché parte della nostra famiglia è necessario nonché obbligatorio domandarsi cosa è accaduto e cosa accade continuamente se gli episodi di ripetono con drammatica puntualità: non è ne fato ne coincidenza, è evidente che qualcosa di distorto si è inserito in quel mondo dove la cura della fragilita, la capacità di accogliere e prendere in carico i bisogni di una persona anziana o disabile ha lasciato spazio alla violenza più bieca e inumana.

Quello che colpisce non sono solo i tre colleghi che perdono la strada ma l’omertà e la connivenza in cui questo avviene.

Sorprende come nelle strutture RSA o RSD, che hanno la caratteristica di “comunità chiuse”, si riesca ad elaborare un comportamento criminoso senza che il gruppo reagisca. Tutti colpevoli dunque? Moralmente ed eticamente la colpa cade su tutta l’equipe, perché se un gruppo di lavoro non sviluppa gli anticorpi per denunciare ed espellere comportamenti contro l’etica professionale o la morale umana, esiste un problema serio di gestione delle risorse e forse esiste un problema ancora più serio di gestione della fragilità, essa sia delle persone anziane o disabili.

Possiamo poi esaminare in maniera più complessa la questione perché se da Narnali passando per Vado Ligure, salendo a Vaprio d’Adda, continuando verso Padova, attraversando il mare per giungere a Sassari, tornando verso la Tuscia, si sviluppano fenomeni simili nell’efferatezza dei comportamenti appare evidente  il fenomeno “Narnali” non è più un caso isolato ma va analizzato compiutamente in diverse direzioni, per giungere ad una spiegazione che possa essere il più plausibile possibile.

Dunque siamo di fronte ad un meccanismo che si ripete, all’infinito e tocca a noi fermarlo. Non sono più sufficienti le interpretazioni psicologiche per comprendere quanto accade, esiste nella sua drammaticità la convinzione che l’esercizio della cura si può trasformare in esercizio di potere, un potere assoluto di vita e di morte ancora più drammatico se questo avviene in luoghi dove la protezione del paziente si abbassa a tal punto da  non essere più garantita. Ma chi deve garantire la protezione? Chi si fa garante della salute non solo fisica ma anche psicologica ed ambientale di un paziente inserito dentro una comunità: l’infermiere.

Il comportamento dei tre colleghi licenziati è ancora più grave alla luce del fatto che loro rappresentavano, dovevano rappresentare, quella “garanzia” che era propedeutica alla tutela dalla salute del paziente e la gravità aumenta se consideriamo la fragilità di cui erano affetti.

Non ho mai pensato in questi mesi che gli accusati siano in qualche modo vittime del “sistema” indi per cui se il “sistema” è marcio in qualche sua appendice o forma allora si è parzialmente giustificati a commettere un reato, resta da decidere se gli esecutori  dei maltrattamenti sono gli unici imputati o possiamo individuare anche mandanti “morali” o al limite complici “morali”.

Il fatto che sia accaduto in Toscana rende maggiormente amara la mia riflessioni, perché se da un lato non convincono le politiche di gestione delle RSA, dall’altra non si può non osservare che da tempo esiste una sensibilità verso il lavoro nelle residenze socio sanitarie come dimostra il recente lavoro fatto dall’Agenzia Regionale di Sanità dal titolo “c’è valore in RSA”.

E’ evidente che esiste una dicotomia importante tra quanto scritto nelle normative e quanto applicato nelle strutture, come esiste una forte dicotomia tra strutture, forme contrattuali applicate e organizzazione.

Il mondo delle RSA è complesso, occorre viverlo quotidianamente per poterlo conoscere ed eventualmente provare a cambiare, risulta però inevitabilmente drammatico come pur nelle diversità dei Sistemi Socio Sanitari delle Regioni il comune denominatore della violenza sia invece del tutto omogeneo: se la violenza è omogenea, è evidente che esiste una omogeneità della complessità del sistema.

Esistono dunque dei mandanti “morali”? Esistono sicuramente delle distorsioni: che impediscono una formazione e selezione adeguata prima ed una crescita delle figure professionali dopo,  una sottovalutazione dell’importanza della presa in carico, una inappropriata gestione delle risorse e un volume burocratico che di fatto non è funzionale alla mission delle strutture.

Non bastano più le dichiarazioni di facciata da parte di coloro che avrebbero, non la possibilità, ma soprattutto la responsabilità di proporre un cambiamento. La politica in questa faccenda ne esce pulita dal punto di vista giudiziario ma non lo può essere dal punto di vista morale e con loro anche chi ha la responsabilità della tutela dei diritti dei lavoratori.

Sono anni che si perpetua un gioco al ribasso nelle strutture RSA, basta leggere i capitolati di esternalizzazione che tendono sempre verso il taglio delle risorse, in  cui la trasparenza è una dichiarazione di facciata, dove il controllo è mera operazione burocratica, dove non si entra mai nel merito ma si rimane sempre sulla superficie mentre in profondità tutto diventa opaco fino a quando il buio avvolge e nasconde.

Narnali dunque la punta dell’icebeg? No, semplicemente l’ultimo episodio prima del prossimo.

Ci sarà una nuova Narnali, a cui seguiranno le solite urla di sdegno, i colpevoli verranno denunciati, magari condannati e qualcuno licenziato. Dopo il silenzio calerà nuovamente per tornare in attesa della prossima struttura degli orrori.

Questo avverrà, non perché voglia erigermi a profeta della sventura ma perché questo mi dice la storia recente del Paese, un Paese in cui non esiste alcun progetto per la fragilità, se non negli spot propagandistici.

Voglio chiudere con le parole di Marcella Gostinelli che sull’argomento ha scritto, forse, le più belle frasi sulla situazione:

“Un altro senso di debito è nei confronti dei “Vecchi”; si, chiamiamoli senza ipocrisie vecchi  e non  grandi anziani o terza età, perché l’indifferenza che mostriamo verso essi si esprime meglio con il termine vecchi. In questo anno ho avuto occasione di frequentare per lavoro molte strutture per “vecchi” in Italia e si capisce subito lo spreco, l’anti economia direbbe Cavicchi, nel sottoutilizzo di quelle strutture e del capitale Infermieristico; si capisce anche che per il nostro Paese la vecchiaia è un disvalore.

In quei luoghi, forse non tutti, l’uomo anziano sembra essere colui che non ha più la possibilità di essere ciò che è o può divenire. Non sembra essere una persona che ha avuto, ha e potrà avere una sua vita.

La cultura che l’essere anziano può interiorizzare in quel genere di strutture è quella di chi vive in una condizione irreversibile lo stato di “anziano ricoverato”.

La differenza fra un anziano ricoverato in una struttura per “vecchi”, dove si agisce con la cultura dell’irreversibilità dell’attuale stato per l’anziano e uno ospitato in una struttura dove si opera con  la cultura della reversibilità della condizione dell’ospite, sta nella percezione, per quest’ultimo, di poter scegliere anche se sa che ciò che sceglie potrà non essere la scelta. Avere la sensazione di poter scegliere la propria condizione è un privilegio dell’uomo libero e dovere etico di chi lo aiuta a vivere è favorire la scelta. L’anziano non è fragile di per sé, diventa fragile quando lo facciamo diventare vecchio. Questo punto è importante per noi infermieri perché se l’uomo non più giovane parte fragile è facile che diventi vecchio e, per la cultura del nostro Paese, non più degno di attenzione”

In un Paese senza cultura, sono inevitabili scelte violente.

Piero Caramello

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