Questo, che riporto qui integralmente, è il pensiero di un collega.
Lo sfogo di un infermiere che, esprimendo la volontà di rimanere anonimo, mi ha voluto raccontare di una sua esperienza come ‘visitatore’ in ospedale, per evidenziare come il nostro ruolo stia purtroppo subendo una sorta di più o meno consapevole snaturamento professionale. Il collega vuole sottolineare quanto sia importante, al di là delle sacrosante battaglie che portiamo avanti e delle nostre ‘lamentele’ quotidiane, tutelare la nostra professione partendo dalle ‘piccole cose’, che forse tanto piccole… non sono.
È un periodo difficile per la nostra professione, forse un po’ per chiunque lavori in sanità.
Gli attacchi mediatici, i casi di malasanità “vera o presunta”, i “processi in televisione”. Tutto questo ha portato un aumento della sfiducia nei confronti degli operatori sanitari e la figura infermieristica ne esce spesso “ammaccata”. Di recente però, ho avuto modo di apprezzare un articolo di Repubblica, “L’insostenibile pesantezza dell’essere infermieri” dove la stampa sembra prendere una svolta nei nostri confronti e dare la parola a diversi rappresentati (Ipasvi provinciali e nazionali, sindacati, singoli infermieri). Finalmente! Dopo il caso di Bologna, la “questione Tagadà”, i fatti di Piombino e Porta a Porta eravamo in molti sui social a urlare: “Siamo professionisti seri e preparati, non meritiamo questo trattamento!” Eppure… eppure mi capita di entrare in un Ospedale come visitatore e alcune cose che osservo da “esterno”, mi fanno storcere il naso e riflettere su quello che, nel nostro piccolo, facciamo per la nostra immagine.
Un’infermiera entra nella stanza di degenza mentre parlo con la persona che sono venuto a trovare. Non ci siamo mai visti, non mi sono presentato come un collega, ma in quanto tale, un po’ per solidarietà, sfoggio il migliore dei miei sorrisi accompagnato da un rispettoso: “Buongiorno!” (non un “ciao”, insomma siamo professionisti seri); lei a malapena mi guarda, non mi risponde e tira dritta per la sua strada. Rimango leggermente basito, ma continuo il dialogo col mio interlocutore: -“allora come va? che medicine ti stanno facendo?” -“Non lo so, ieri sera mi hanno attaccato una flebo piccola” -“e non hai chiesto cos’era?” -“Sì, ma l’infermiere che me l’ha attaccata se n’è andato senza dirmi nulla.”
Parlo così con la moglie del paziente, e le parole alla fine sono sempre quelle: medici, infermieri e OSS entrano in camera e non salutano; c’è chi entra per togliere una flebo e non ti guarda nemmeno in faccia.
È vero che si tratta di casi isolati e di certo non si può trarre un’inferenza sulla categoria, possiamo cercare tante piccole giustificazioni (la stanchezza, la fretta cronica con cui dobbiamo fare le cose, ecc.) ma dovremmo ricordarci che l’opinione pubblica non è influenzata solo dai salotti televisivi, e se certe notizie hanno una grossa risonanza è perché sono alimentate anche da queste “piccole esperienze negative” e dal passaparola che non va in TV. E, in fondo, un “buongiorno” e un “le sto facendo questa flebo per la sua febbre”, forse non ci ruba tutto questo tempo. Quando siamo sotto attacco invochiamo l’intervento di chissà quali figure altisonanti che proteggano la nostra immagine, ma non dimentichiamoci che, nel nostro piccolo, anche noi possiamo fare tanto.
Parafrasando Tolkien: “[…] tale è il corso degli eventi che muovono le ruote del mondo, che sono spesso le piccole mani ad agire per necessità, mentre gli occhi dei grandi sono rivolti altrove.”
Con questa consapevolezza, cominciamo ad agire con azioni piccole, magari come un saluto; ricordandoci che “L’infermiere ascolta, informa, coinvolge l’assistito” e “rispettando le indicazioni espresse dall’assistito, ne favorisce i rapporti con la comunità e le persone per lui significative, coinvolgendole nel piano di assistenza” [cfr. art 21 e 22 del Codice Deontologico dell’Infermiere 2009].
Infermiere anonimo
Immagine: lookfordiagnosis.com
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