In questo articolo riprenderemo l’evoluzione che ha portato il Pacemaker a diventare piccoli concentrati di tecnologia
I disturbi del sistema di conduzione elettrico cardiaco danno vita ad aritmie, che vanno ad ostacolare il ruolo del cuore compromettendone la regolare funzionalità.
Il pacemaker, termine inglese che sta per “segna-ritmo” è un dispositivo in grado di inviare uno stimolo elettrico controllato alla muscolatura cardiaca al fine di mantenere un ritmo cardiaco e una prestazione emodinamica efficace.
Il PM è costituito da tre elementi principali:
- il generatore di impulsi che fornisce il segnale di uscita;
- la batteria che presenta l’energia necessaria per stimolare il cuore;
- il sistema elettrocatetere che costituisce la connessione elettrica tra il cuore e il generatore di impulsi; il quale termina con un elettrodo fissato nel muscolo cardiaco.
La storia del pacemaker pone le sue radici nel 1958, ma fu un anno dopo che l’ingegnere Greatnatch ed il cardiologo Chardack svilupparono il primo pacemaker completamente impiantabile; esso era in grado di curare pazienti con BAV e stimolava il ventricolo. Il suo diametro era pari a 6 cm con uno spessore di 1,5 cm e un peso di 180 gr.
Esso presentava una batteria in mercurio-zinco la quale era responsabile di molti guasti del PM.
Successivamente furono sperimentate batterie biologiche e nucleari ma dal 1972 la maggior parte dei PM usa batterie litio-iodio, ad alta densità di energia e ad alta longevità (può durare per più di 10 anni).
Il punto debole di tale dispositivo era dato dalla continua stimolazione del cuore (per questo chiamato fixed-rate o asincrono), senza tenere conto della presenza di una attività ritmica spontanea, andando a determinare una piena competizione tra il dispositivo e l’attività cardiaca, causando qualche volta delle aritmie o addirittura fibrillazione ventricolare.
Per questo motivo fu aggiunto un sense amplifier, ovvero un amplificatore di rilevamento in grado di riconoscere l’attività di conduzione elettrica cardiaca consentendo la non attivazione del PM se non necessario; ottenendo anche un prolungamento della durata delle batterie del dispositivo.
Si ottenne in questo modo un demand pacemaker il quale era in grado di fornire una stimolazione elettrica al cuore solo in assenza di un naturale ritmo cardiaco.
Tale concetto introdotto da Berkovits nel 1964 è alla base dei PM moderni.
Gli elettrodi cardiaci dei demand pacemaker svolgono la funzione di stimolazione (pacing) e una funzione di rilevazione (sensing). Il pacing viene ottenuto attraverso l’applicazione di un breve impulso elettrico alla parete del miocardio, dove è presente l’elettrodo distale, il quale a sua volta rileva l’attività elettrica distale.
Nel 1970 furono introdotti i dual-chamber pacemaker ossia i pacemaker bicamerali in grado di rilevare l’attività cardiaca in atrio e/o in ventricolo al fine di stabilire se è necessaria la stimolazione.
Esso necessita di due elettrocateteri: uno in atrio e uno in ventricolo e tre elettrodi uno per l’atrio uno in ventricolo e l’altro è neutro. Tali dispositivi sono per lo più utilizzati per i pazienti che soffrono della malattia del nodo senoatriale.
Sebbene i demand pacemaker fossero in grado di soddisfare alcune richieste fisiologiche, tali dispositivi non erano capaci di assolvere alle richieste del corpo durante attività di stress come attività fisica.
Le ultime innovazioni riguardano i pacemaker rate-responsive introdotti nel 1980, in grado di regolare la frequenza di stimolazione in relazione ad un parametro fisiologico/fisico legato alle necessità metaboliche o all’attività fisica del soggetto.
Il sistema sensore presenta un dispositivo in grado di rilevare dei parametri del corpo come ad esempio i movimenti del corpo, la frequenza respiratoria, il pH, la temperatura del sangue, la ventilazione al minuto, la temperatura venosa centrale, l’impedenza intracardiaca ventricolare, ecc.) e un algoritmo capace di adeguare la risposta del pacemaker in relazione al parametro misurato. Il sensore converte la variabile in un segnale elettrico che regola la frequenza di stimolazione artificiale. Si supera in questo modo l’incompetenza cronotropa del paziente.
Nel 2013 si raggiunge un importante traguardo grazie ad un’equipe ceco-statunitense: il pacemaker senza fili…il primo PM wireless della storia. Esso è costituito da una piccola batteria e viene impiantato attraverso la vena femorale direttamente in ventricolo senza aggiunta di fili (VEDI).
Tale intervento riduce il rischio di infezione derivante dall’impianto del PM tradizionale.
La durata della batteria è di gran lunga maggiore, va dai 9 ai 17 anni contro i 5-8 anni di un PM tradizionale.
I tempi di intervento sono brevissimi, 28 minuti in media ma tale dispositivo incontra oggi dei limiti in quanto capace di curare solo pazienti che hanno necessità di stimolazione in ventricolo.
I PM hanno subito una grande evoluzione grazie allo sviluppo tecnologico, lo studio di nuovi materiali e alla ricerca. Si sono sempre più ridotte le dimensioni del dispositivo, è migliorata la tecnica di impianto e sono aumentate le prestazioni del dispositivo.
Rosanna Lacerenza
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