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Intervista al Dott. Mauro Di Fresco in occasione della “Giornata mondiale della salute mentale”

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In occasione della giornata mondiale della salute mentale che ricorre il 10 ottobre 2017 il Dott. Mauro Di Fresco ci ha rilasciato una interessante intervista

 

L’OMS in occasione della 25esima giornata mondiale sulla salute mentale, ha lanciato un allarme: lo “stress da lavoro” ha una ricaduta, in termini di costi per la collettività, che si aggira intorno al 4-6% del Pil mondiale. Questo problema investe in maniera ancora più forte la categoria infermieristica: quali sono secondo lei le peculiarità del fenomeno?

Dott. Di Fresco: In merito alla domanda, non ho contezza se il fenomeno dello stress da lavoro correlato in termini di variazioni del Pil sia della portata da Lei indicatami o meno, questo lo lascio valutare agli studiosi dei massimi sistemi economici e sociali; se invece ci riferiamo ai micro-sistemi di lavoro più vicini alla nostra categoria, avrei certamente qualcosa da dire.

Essendo uno studioso del fenomeno le posso garantire che la situazione è molto più grave di quanto si immagini.

Da quando ho intrapreso, insieme ai miei collaboratori i Dottori Carlo Pisaniello e Francesco Tontini, l’attività dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico AADI, mi sono reso conto che questo fenomeno è radicato e penetrante all’interno delle realtà lavorative (siano esse pubbliche o private), molto più di quanto potessi immaginare.

Fino a quel momento, pur avendo fatto parte delle commissioni aziendali sul mobbing, non ero riuscito a rendermi conto di quanto questo fenomeno sia in realtà diffuso, le basti immaginare che da 4 anni non facciamo altro che ascoltare centinaia di colleghi di tutte le età che si rivolgono all’AADI in quanto vittime di mobbing per essere tutelati dal punto di vista disciplinare o legale; sempre più spesso si rivolgono a noi colleghi che manifestano oramai la classica sintomatologia riferibile al mobbing, con manifestazioni psico-patologiche anche importanti.

Molti infermieri ci contattano per telefono piangendo perché non hanno la forza neanche di venire presso i nostri uffici per quanto sono provati, depressi, distrutti nel corpo e nella mente.

Le garantisco che non sto esagerando, abbiamo assistito casi veramente unici, prontamente indirizzati ai nostri consulenti psichiatri e medici legali.

Oramai i posti di lavoro sono fabbriche  di stress e di disagio, il fenomeno poi in ambito ospedaliero è ancora più sentito per ragioni che sono facilmente intuibili, è chiaro che la psiche di un lavoratore è messa a dura prova molto di più se ha a che fare con soggetti malati piuttosto che con soggetti sani e che svolgono in serenità le loro attività sociali e lavorative.

Il contatto diretto con il paziente “ammalato” è certamente uno dei fattori che influenza di più la perdita progressiva, se non a volte repentina, dell’equilibrio psichico di ognuno di noi: una cosa è lavorare in un ambiente in cui si respira gioiosità, serenità, felicità ed un‘altra è invece stare a contatto quotidianamente per ore e ore con soggetti malati o addirittura moribondi; a ciò si aggiunga che, l’ambiente di lavoro oggi, soprattutto in ambito ospedaliero, è oramai corrotto e privo di quei meccanismi difesivi di riconoscimento professionale e/o meritocratici tipici delle organizzazioni di paesi molto più sviluppati del nostro come Svezia e Norvegia, ed ecco che ci troviamo difronte alla c.d. “tempesta perfetta” contro la quale, se non si ha alla base una stabilità emotiva ben strutturata e formata, si rischia il collasso totale.

Oggi gli ambienti lavorativi producono più danni che prodotti e merci (o come si suol dire in ambito ospedaliero “produrre salute”), il disattendere anche quelle che erano le prerogative e gli obiettivi delle varie riforme del pubblico impiego indirizzate al merito e alla performance come il D.lgs. 150/09 c.d. Brunetta hanno fatto il resto.

Oggi la “Dirigenza infermieristica”, struttura che dovrebbe rappresentare la professione all’interno delle aziende ospedaliere, nella stragrande maggioranza dei casi è la risultanza di campagne acquisti di questo o quel partito o di questo o quel collegio provinciale IPASVI (è cronaca di tutti i giorni le modalità con le quali vengono svolte alcune prove selettive in merito) ma non di certo di una selezione del personale operata attraverso criteri di trasparenza, congruità e limpidezza.

Da questo scaturisce ovviamente che i rapporti che si creano successivamente all’assunzione dell’incarico, soprattutto nei confronti del personale infermieristico da questi coordinato, sono basati sull’arroganza e sulla prepotenza con episodi documentabili che rasentano non solo l’illecito civile e in qualche caso anche penale, ma il ridicolo.

Come associazione ci scontriamo giornalmente con dirigenti della professione infermieristica che non hanno la minima contezza dei compiti e delle attività poste in capo al personale infermieristico che dirigono e che reputano gli infermieri come tutto fare, sguatteri della sanità e operai anzichè come professionisti, potrei mostrarle decine di ordini di servizio con indicazioni assurde e risibili contro gli infermieri, della serie facciamoci del male.

Quindi direi che in primis la responsabilità sarebbe da ricercare nei nostri dirigenti apicali, i quali dovrebbero pensare meno alle poltrone e più ai colleghi, ed in secundis anche alle organizzazioni aziendali ancora impostate su modelli organizzativi ancestrali e baronali medico centrici che identificano il medico come figura di riferimento per ogni situazione si presenti, sia essa clinica o organizzativa.

Dott. Di Fresco, quali sono le storture del sistema organizzativo che fanno dell’infermiere una tra le professioni che maggiormente soffre dello stress da lavoro correlato?

Dott. Di Fresco: Come ho accennato già alla prima domanda, il problema dello stress da lavoro correlato che vive oggi l’infermiere inserito nel contesto organizzativo aziendale, deriva essenzialmente dal demansionamento strutturale che subisce quotidianamente, un problema molto sentito ultimamente soprattutto dopo la nostra continua attività di divulgazione all’interno di convegni, corsi ecm, discussioni e tavole rotonde.

Ad oggi rappresenta il problemaprincipale: sarebbe come dire che abbiamo una Ferrari che può fare i 300 km all’ora ma la dotiamo di gomme adatte alla fiat 500, ovvero mancano le basi culturali e professionali per far si che la figura dell’infermiere sia oggi considerata alla stessa stregua di quella del medico, del biologo, del farmacista.

Le basti immaginare che come professionisti siamo inseriti in una declaratoria contrattuale al pari degli elettricisti, dei cuochi e degli operai, pur avendo come titolo professionale una laurea, mentre qualsiasi altro professionista con una laurea come titolo professionale, è inserito nella dirigenza, sia essa medica o non medica.

Già questo di per sé è altamente frustrante e demansionante e costringe il professionista infermiere a subire le conseguenze di questo status lavorativo, la mancanza della reale autonomia professionale, della capacità di essere indipendenti, la difficoltà di essere riconosciuti nel sistema organizzativo come veri professionisti, la considerazione anche che la società ha della figura infermieristica; tutto questo, associato alla scarsa preparazione dei nostri dirigenti e dei nostri coordinatori, fa sì che il livello di stress da lavoro correlato si alzi a livelli preoccupanti.

Ogni organizzazione di lavoro oggi vede le sue risorse umane principali (infermieri) frustrate e demotivate soprattutto perché risentono della pressione derivante da due aspetti fondamentali e concomitanti: il primo è senz’altro la retribuzione, ossia la scarsità delle risorse economiche, l’appiattimento in basso dei salari, l’indifferenziazione dei livelli retributivi dei professionisti che lavorano in unità operative diverse; l’altro aspetto è , sia la scarsa considerazione da parte dell’organizzazione interna, che il riconoscimento professionale che scaturisce anche dalla società nella quale è collocato il lavoratore, ossia lo status sociale.

La conseguenza diretta di tale insoddisfazione si ripercuote inevitabilmente sullo stato di salute prima psichico e di conseguenza fisico.

Lei è un esperto di mobbing infermieristico, quanto incide questo fenomeno sul dato generale di malessere da stress correlato?

Dott. Di Fresco: E’ strettamente correlato, più si vive una situazione di demansionamento e più si è soggetti predisposti ad attacchi di tipo mobbizzante, più si è mobbizzati e più si è soggetti a situazioni di stress da lavoro correlato.

L’insoddisfazione personale fa da apripista agli attacchi dei superiori gerarchici e dei colleghi (molto meno frequenti).

Più si è deboli e più si è vulnerabili, ma questo accade anche nella vita di tutti i gg. aggiungerei inoltre che più si è ignoranti, inteso nel senso etimologico del termine di mancanza di “conoscenza” e più si è in una posizione di vulnerabilità soggettiva.

A questo va aggiunto quello che definirei come  l’assoluta assenza protettiva del branco, ossia la mancanza di quella rete protezionistica derivante dall’appartenenza ad un gruppo sociale ancor prima di un gruppo di lavoro, le faccio un esempio: i medici godono di una immensa stima da parte della popolazione e delle compagini aziendali, non tanto perché sono immuni dagli errori, bensì perché sono un gruppo, sociale oltre che professionale coeso, all’interno del quale ogni componente si riconosce e questo è un forte segnale di appartenenza che li rende più protetti e tutelati dagli attacchi generalizzati del prossimo.

Non che anche i medici non vivano situazioni mobbizzanti, tutt’altro, ma in percentuale sono molto meno vulnerabili poiché più uniti e riconoscibili.

L’assoluto menefreghismo e individualismo che oggi ci governa nelle sedi di lavoro, fanno si che ci si ritrovi a combattere da soli contro, non tanto le manifestazioni umane delle struttura organizzativa aziendale di vertice (direttore sanitario, direttore generale), ma contro i nostri stessi colleghi, pseudo-dirigenti o dirigenti che siano (Dirigenti infermieristici, posizioni organizzative e coordinatori). Che i primi scontri interprofessionali avvengano tra pari grado è sintomatico del fatto che alla professione manca un riconoscimento anche formale e sociale oltre che professionale, non ci si riconosce, non ci si rende conto di avere una stessa matrice di appartenenza.

La stragrande maggioranza dei conflitti che il personale infermieristico vive ed è costretto ad affrontare quotidianamente, trae origine da situazioni e persone che rispetto a loro, rivestono una posizione apicale: possiamo immaginare come una piramide al cui vertice, percentualmente parlando, sono collocati i coordinatori infermieristici poi le posizioni organizzative ed infine alla base la dirigenza infermieristica.

Questa suddivisione immaginaria e schematica è esemplificativa per poter meglio comprendere dove hanno origine le situazioni che poi portano ad avere conflittualità tali da sfociare in vero e proprio mobbing.

In altre realtà questa piramide è invertita, ossia è la dirigenza che manifesta la propria incapacità gestionale con attacchi gratuiti e pedissequi, ma nella stragrande maggioranza dei casi il tutto parte dai coordinatori delle varie unità operative, i quali secondo il mio modesto modo di vedere, dovrebbero invece rappresentare una sorta di camera di decantazione che filtra e rende meno invasivi i continui attacchi del datore di lavoro nei confronti dell’infermiere.

Mi rendo conto che non hanno compito facile e che la loro figura meriterebbe una maggiore considerazione viste le difficoltà che incontrano quotidianamente, ma se ciò non accade è anche per la loro scarsa preparazione nelle relazioni interpersonali, oggi il coordinatore infermieristico non deve essere solo un manager freddo e calcolatore, ma anche e soprattutto un facilitatore ed un soggetto che sappia venire incontro alle necessità personali in contemperamento con quelle aziendali.

 

Quali contromisure adottare a livello personale ed organizzativo?

Dott. Di Fresco: Innanzitutto, a livello personale direi che una delle prime cose che ci può rendere più forti difronte alle angherie datoriali, intese anche come provenienti dai nostri superiori gerarchici, è senz’altro la conoscenza delle leggi e degli istituti contrattuali previsti per la professione che svolgiamo, che non è appannaggio del sindacato, ma può e deve essere a portata di tutti, poiché  tali istituti rientrano nei diritti e nei doveri che un professionista, che svolge un’attività come quella infermieristica, deve necessariamente conoscere.

Qui dovremmo aprire un altro capitolo sulla tutela sindacale, ma preferisco soprassedere anche perché andremmo oltre la domanda postami.

Dal punto di vista organizzativo è senz’altro più complesso adottare dei sistemi che possano arginare le difficoltà che poi conducono necessariamente ad una situazione di straining e mobbing. I comitati per le pari opportunità e i centri antimobbing presenti all’interno o all’esterno delle aziende ospedaliere possono senz’alto essere di aiuto nei casi in cui si viene a conoscenza di episodi riconducibili a tali situazioni nell’immediatezza; il problema  sta anche nel fatto che di solito i soggetti mobbizzati non trovano il coraggio di denunciare gli episodi e le situazioni che vivono, anche perché non sono in grado di riconoscere i sintomi che si sviluppano a seguito di queste continue attività.

Spesso la consapevolezza matura quando si è già instaurata una sintomatologia riferibile proprio a stress da lavoro correlato, burn out e mobbing.

Alla base di tutto c’è che dovremmo prendere finalmente coscienza del fatto che siamo una professione intellettuale, dovremmo cominciare a difendere di più la nostra professione partendo dalla rappresentanza dei collegi IPASVI e della FNC che vedono sempre le stesse identiche persone governare per anni le sorti di quasi 500.000 iscritti, si parte sempre dalla rappresentanza istituzionale, se lì non c’è il riconoscimento come possiamo pretendere che ci sia dai datori di lavoro?

 

Massimo Randolfi

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