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Periodo di prova nel pubblico impiego: mancato superamento e conseguente recesso datoriale

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Aadi: Il mero svolgimento di attività di coordinamento non può automaticamente dare diritto alle relative indennità
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Commento a sentenza Cass. Sez. I n. 26679 del 22 ottobre 2018.

La sentenza chiarisce in modo esaustivo la natura del periodo di prova, lo svolgimento, le modalità e le motivazioni del recesso datoriale e la sua differenza con il licenziamento.

Dicono, tra l’altro, gli Ermellini: “Il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione diversamente da quello che accade nel licenziamento assoggettato alla legge n. 604 del 1966 (Cass: n. 21586/2008 cit; conf. Cass n.17970/2010 cit.). L’esercizio del potere di recesso deve essere coerente con la causa del rapporto di prova che va individuata nella tutela dell’interesse comune alle due parti del rapporto di lavoro, in quanto diretto ad attuare un esperimento mediante il quale sia il datore di lavoro che il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto, accertando il primo le capacità del lavoratore e quest’ultimo, a sua volta, valutando l’entità della prestazione richiestagli e le condizioni di svolgimento del rapporto (Cass. n. 8934 del 2015; Cass. n. 17767 del 2009; Cass. 15960 del 2005)”.

Il Tribunale di Savona con sentenza n. 166 del 2016 ha confermato il rigetto dell’impugnazione del recesso datoriale esercitato al termine del periodo di prova della dipendente S.G., assunta con un pubblico concorso come dirigente delle professioni sanitarie, infermieristiche e tecniche presso la ASL 2 Savonese.

La Corte di Appello di Genova, in riforma della sentenza di primo grado impugnata dalla ricorrente soccombente, ha condannato la ASL al risarcimento del danno in favore della ricorrente, nella misura di 10 mensilità della retribuzione globale di fatto, oltreché, agli oneri accessori dal 18 ottobre 2013.

La Corte territoriale ha considerato fondato il secondo motivo di appello, in rapporto all’illegittimità della valutazione della prova effettuata dall’azienda: infatti esaminato il complesso probatorio ha ritenuto che emergesse un apprezzamento datoriale privo di una motivazione sufficientemente specifica ed a tratti contraddittoria rispetto alla realtà dei fatti. È stata comunque esclusa la nullità del recesso e la conseguente reintegrazione nel posto di lavoro, essendo sufficientemente adeguato il risarcimento del danno stimato in via equitativa in dieci mensilità. La dipendente ricorre comunque in Cassazione, contro cui ha risposto la ASL Savonese con controricorso.

La dipendente denuncia violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 12, co. 2 disp. att.  sulla legge in generale; dell’art. 1418 c.c. in relazione all’art. 1324 c.c.; degli artt. 3 e 21 septies legge n. 241/90; dell’art. 14, co. 5, CCNL Area Dirigenza del ruolo sanitario, tecnico e amm.vo del SSN in data 8.6.2000; dell’art. 14, co. 1, CCNL cit.

Si sostiene che nel rapporto di lavoro pubblico, la motivazione all’atto di recesso durante il periodo di prova, assurge ad elemento essenziale dello stesso, la cui assenza ne determina la nullità per violazione della lex specialis, anche per violazione dell’art. 21 septies della legge n. 241 del 1990 per cui la Corte di Appello avrebbe errato a negare la reintegrazione nel posto di lavoro.

Dal canto della controricorrente azienda invece, la Corte di Appello avrebbe errato “laddove ha preteso che le motivazioni addotte per il recesso dovessero assumere le severe caratteristiche normalmente richieste per un recesso per giusta causa o giustificato motivo”.  Deducendo inoltre che la Dirigente che aveva valutato l’odierna ricorrente aveva adeguatamente motivato l’esito ancorché negativo della prova.

La Suprema Corte analizzati i ricorsi si esprime deducendo che: secondo l’art. 2096 c.c. in caso di “assunzione in prova”, il datore di lavoro ed il prestatore di lavoro, sono tenuti rispettivamente a consentire ed a espletare l’esperimento facente parte del patto di prova (comma 2); “durante il periodo di prova ciascuna delle parti può recedere dal contratto, senza obbligo di preavviso o d’indennità, salvo che la prova non sia stata stabilita per un tempo minimo necessario” (comma 3); “compiuto il periodo di prova, l’assunzione diviene definitiva” (comma 4).

La disciplina è integrata dall’art. 10 della legge 15 luglio 1966, n. 604, che prevede l’applicabilità della normativa dei licenziamenti ai lavoratori in prova, la cui assunzione sia divenuta definitiva e, comunque, decorsi sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro.

In seguito poi alla privatizzazione del rapporto di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amm.ni (D.lgs. n. 165 del 2001) si è precisato che l’assunzione alle dipendenze delle pubbliche amm.ni sono assoggettate all’esito positivo di un periodo di prova e, ciò, avviene ex lege (art. 70, co. 13, D.lgs. n. 165/01) e non per effetto di un patto inserito nel contratto di lavoro dall’autonomia contrattuale, la quale è abilitata solo ed esclusivamente alle determinazioni della durata del periodo di prova per il tramite della contrattazione collettiva (Cass. n. 21586 del 2008; Cass. n. 17970 del 2010).

Per quanto qui di interesse e, nei limiti del recesso datoriale, sono certamente applicabili al periodo di prova dei dipendenti pubblici i principi ermeneutici della Corte Costituzionale (sent. n. 189 del 22 dicembre 1980) in tema di recesso dal rapporto di lavoro subordinato di diritto comune in prova nonché, la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 21586/2008 cit.).

La Corte Costituzionale, nella sentenza succitata ha ritenuto infondata la questione di illegittimità costituzionale degli artt. 2096, co. 3, c.c. e 10, legge n. 604 del 1996, dirimendo i dubbi dei giudici che avevano ritenuto confliggente con i paramenti costituzionali, la mancanza dell’obbligo per l’imprenditore di motivare il licenziamento del lavoratore in periodo di prova, paventando che l’assoluta discrezionalità in tal modo garantita al datore di lavoro potesse dar luogo da parte sua a ”comportamenti vessatorie lesivi della dignità del lavoratore”. La Corte evidenziando l’obbligo delle parti a consentire e a fare l’esperimento che forma oggetto del patto di prova (art. 2096, co. 2 c.c.) ne ha fatto discendere un primo limite alla discrezionalità dell’imprenditore, nel senso che la legittimità del licenziamento da lui intimato durante il periodo di prova può efficacemente essere contestato dal lavoratore quando risulti che non è stata consentita, per l’inadeguatezza della durata dell’esperimento o per altri motivi, quella verifica del suo comportamento e delle sue qualità professionali alle quali il patto di prova è preordinato.

La discrezionalità dell’imprenditore invece, si esplica nella valutazione delle capacità e del comportamento professionale del lavoratore, cosicché, il lavoratore stesso, potendo dimostrare il positivo superamento del periodo di prova, nonché l’imputabilità del licenziamento ad un motivo illecito, ben potrebbe eccepirne la nullità in sede giurisdizionale.

Successivamente la stessa Corte, con sentenza n. 541 del 2000, innanzi al sospetto del giudice a quo secondo cui il lavoratore in prova che non abbia a disposizione l’atto scritto nel quale vengono indicate le ragioni del recesso “si troverebbe in una situazione di minore tutela, non potendo organizzare in modo valido la propria difesa in sede giurisdizionale” ribadito che, il “lavoratore in prova ingiustamente licenziato può ricorrere in sede giurisdizionale per ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento”, inoltre ha affermato che “egli può allegare e provare l’eventuale sussistenza di ragioni del recesso estranee all’esito dell’esperimento; la maggiore o minore difficoltà di tale onere, a seconda delle varie circostanze , si risolve comunque in un problema di fatto che non assurge a violazione dell’art. 24 Cost.”.

Con altre sentenze, sempre la Corte Cost. (sentt. n. 255 del 1989 e n. 172 del 1996) è giunta poi a conseguenza ulteriore con riferimento a due speciali ipotesi di rapporto di lavoro in prova, in cui si sovrappongono peculiari ragioni di tutela del prestatore: quella dei soggetti, appartenenti a categorie protette, avviati per il collocamento obbligatorio e, quello della donna in gravidanza o puerperio.

Può dirsi quindi che dalla giurisprudenza costituzionale emerge che nel periodo di prova non c’è un mero regime di libertà recedibilità dal rapporto essendo comunque consentito, entro ben definiti limiti, un sindacato sulle ragioni del recesso che diventa più incisivo ove insorgono speciali ragioni di tutela del lavoratore.

Il recesso del datore di lavoro durante il periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa il datore di lavoro dal provarne la giustificazione, mentre diversamente accade durante il licenziamento assoggettato alla legge n. 604/66. L’esercizio quindi del recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova che va individuata nell’interesse comune delle parti diretto ad attuare un esperimento mediante il quale il datore di lavoro e il lavoratore possono verificare la reciproca convenienza del contratto in essere.

In tutti i casi l’onere della prova grava interamente sul lavoratore (Cass. n. 21784 del 2009; Cass. n. 15654 del 2001; Cass. n. 7644 del 1998) e può essere assolto anche attraverso presunzioni che però per poter assurgere    debbono essere “gravi, precise e concordanti”(Cass. n. 14753 del 2000).

Anche nella P.A. è ferma l’applicabilità del principio secondo il quale il recesso del datore di lavoro per esito negativo della prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne le giustificazioni, mentre nel rapporto di lavoro privatizzato non si estende l’obbligo di motivazione dei provvedimenti amm.vi, trattandosi di atto gestionale del rapporto di lavoro adottato con le capacità ed i poteri del privato datore di lavoro (Cass. n. 15753 del 2000).

Vista quindi la succitata giurisprudenza Costituzionale, il collegio valuta che la Corte territoriale ha ritenuto di escludere che la prova della dipendente si fosse svolta con modalità illegittime che non consentissero di per sé la valutazione o che il recesso fosse stato determinato da un motivo illecito, e che l’obbligo di motivazione per quanto può anche esprimersi in modo sintetico, non muta la natura discrezionale del potere conferito al datore di lavoro ne tanto meno grava su questi l’onere di provare il mancato superamento della prova, come invece ritenuto dalla corte genovese.

La sentenza impugnata va quindi cassata con rinvio affinché venga fatta applicazione del seguente principio di diritto ex art. 348 c.p.c.: “Il lavoratore come dipendente di una pubblica amm.ne che impugni il recesso motivato del mancato superamento della prova deve allegare e provare che le modalità dell’esperimento non risultassero adeguate ad accertare la sua capacità lavorativa oppure ilo positivo esperimento della prova, ovvero, la sussistenza di un motivo illecito o estraneo all’esperimento stesso, restando escluso che l’obbligo di motivazione possa far gravare l’onere della prova sul datore di lavoro e che il potere di valutazione discrezionale dell’amm.ne possa essere oggetto di un sindacato che omologhi la giustificazione del licenziamento per giusta causa o giustificato motivo”.

La Corte quindi rigetta il ricorso principale della lavoratrice accogliendo il ricorso incidentale del datore di lavoro e rinviando alla Corte di appello di Torino per la valutazione anche delle spese di giudizio.

Dott. Carlo Pisaniello

 

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