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“Modello Esther” in Svezia: il paziente al centro del processo di cura

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“Modello Esther” in Svezia: il paziente al centro del processo di cura
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Proponiamo un interessante contributo del nostro collaboratore dall’Inghilterra, Luigi D’Onofrio.

I pazienti anziani con esigenze di cura complesse possono ricevere servizi da più specialisti, come i medici di base, i fisioterapisti, gli infermieri di famiglia. Inoltre, possono visitare i reparti di emergenza, avere frequenti ricoveri e riabilitazioni post-ospedaliere e ricevere servizi di assistenza a lungo termine, nel loro domicilio o in strutture di cura.

La Contea di Jönköping, in Svezia, conta circa 330.000 abitanti. Dalla fine degli anni Novanta, questa piccola regione è stata sede di un importante esperimento, ormai divenuto programma consolidato, finalizzato al miglioramento del coordinamento dell’assistenza e delle esperienze dei pazienti anziani: il “modello Esther”, oggi realizzato in altre aree del Paese e riconosciuto a livello internazionale, tanto negli Stati Uniti (dove è stato già avviato in via sperimentale in alcune aree) quanto nel Regno Unito – per esempio nel Kent, dove si organizzano degli Esther café (foto) – come uno degli esempi più illuminanti di trasformazione dell’attuale organizzazione dei servizi sanitari. In Italia, invece, il progetto Esther è ancora sconosciuto.

Il coordinamento delle cure, in Svezia, è caratterizzato da una struttura organizzativa articolata, in cui le 21 contee del paese hanno la responsabilità di finanziare e fornire servizi ospedalieri e medici, mentre i 290 comuni forniscono i servizi di comunità. L’assistenza  infermieristica a domicilio ed il supporto nelle attività di vita quotidiana sono fornite da diversi professionisti.

Il progetto Esther fu introdotto alla fine degli anni ’90 ed inizialmente doveva avere una durata triennale. Il fondatore, Mats Bojestig, a capo del dipartimento di Medicina dell’ospedale Höglandet di Nässjö (cittadina della Contea di Jonkoping), costruì il modello partendo dalle esperienze negative di una ideale paziente anziana, nota come “Esther”.

L’esperienza di Esther, descritta da Nicoline Vackerberg, coordinatrice del progetto, è la seguente:

Esther è una donna di 88 anni, capace di intendere e di volere, che vive da sola in appartamento. Nelle ultime notti, ha iniziato a presentare difficoltà respiratorie ed edema degli arti inferiori, tanto da essere costretta a dormire in poltrona. Dopo aver contattato telefonicamente sua figlia, che vive in una città vicina e non sa cosa fare, Esther chiede il supporto di un professionista. Viene visitata da un’infermiera di distretto, che le consiglia di visitare il suo medico di famiglia (PCP, Primary Care Physician o GP, General Practitioner. Per brevità, useremo di seguito l’acronimo GP). Tuttavia, Esther vive al terzo piano di una palazzina senza ascensore e non riesce a scendere le scale. L’infermiera di famiglia chiama allora un’ambulanza per recarsi dal GP. Quest’ultimo stabilisce che è necessario il ricovero in ospedale e chiama un’ambulanza. Sono già trascorse tre ore. Dopo essere arrivata in pronto soccorso, Esther racconta la sua storia a diversi medici dell’ospedale, durante un’attesa che dura cinque ore e mezzo. L’anziana donna vede un totale di oltre 30 persone diverse e deve ripetere la sua storia daccapo più volte, mentre continua ad accusare problemi respiratori. Questo processo contribuisce a sviluppare in lei uno stato confusionale, che, nella peggiore delle ipotesi, potrebbe essere diagnosticato erroneamente come demenza. Dopo  una lunga attesa, un medico la ricovera in un reparto ospedaliero ed inizia il trattamento, dove incontrerà altri medici ed infermieri.

 

Con l’esperienza di Esther in mente, Bojestig ha avviato una vasta serie di interviste e workshop, tra il 1997 e il 1999, per identificare ridondanze e lacune nei sistemi di assistenza medica e infermieristica di comunità, allo scopo di sviluppare un piano d’azione per il loro miglioramento.

Il team del progetto Esther consisteva di medici, infermieri, assistenti sociali ed altri professionisti, che rappresentavano l’ospedale di Höglandet e gli ambulatori medici, in ciascuno dei sei Comuni della Contea. I partecipanti sono stati divisi in due sottogruppi: il gruppo strategico ed il gruppo di gestione del progetto (project management).

Per stabilire un quadro chiaro ed individuare i punti di debolezza del sistema esistente, i membri del team hanno condotto più di 60 interviste con pazienti ed operatori. Insieme hanno analizzato i risultati, che includevano affermazioni come “i pazienti in una casa di cura vedono raramente il loro medico” e “un paziente che riceve cure palliative a casa è stato in contatto con 30 persone diverse in una settimana”.

Secondo Bojestig, le interviste hanno anche fornito ai fornitori preziose realizzazioni su come, nei singoli processi di lavoro, il lavoro di un professionista si concatenasse con quello degli altri. In senso figurato, se non letteralmente, dice, gli intervistatori avrebbero esclamato: “Stai facendo questo? Anch’io lo sto facendo!”.

Il risultato di questa mancanza di coordinamento portava risultati paradossali: ad esempio, mentre l’assistente sociale di Esther sapeva tutto sulle sue abitudini di vita, il suo medico le poneva ancora molte domande al riguardo, l’ospedale di nuovo, e così via. Le lacune nel coordinamento delle informazioni, in particolar modo per quanto riguardava l’assunzione della terapia farmacologica, causava notevoli ridondanze e sprechi e, nel peggiore dei casi, poteva determinare errori nella prescrizione.

Il team ha individuato alcuni obiettivi su cui strutturare progetti:

  • Sviluppare un’organizzazione flessibile, con attenzione ai bisogni del paziente;
  • Progettare percorsi di ripetizione nella prescrizione dei farmaci più efficienti e migliorati;
  • Creare modi in cui la documentazione e la comunicazione di informazioni possono essere adattate al successivo anello della catena di assistenza;
  • Sviluppare un efficiente supporto informatico, attraverso l’intera catena dell’assistenza;
  • Sviluppare e introdurre un sistema di diagnosi per la cura della comunità;
  • Sviluppare un centro di competenza virtuale, per migliorare il trasferimento ed il miglioramento delle competenze, attraverso la catena di assistenza.

“Esther” è diventata così, negli anni, il prototipo del paziente anziano, che presenta esigenze di cura complesse, in grado di coinvolgere una varietà di erogatori di servizi. Creare un personaggio fittizio ha aiutato i caregivers a concentrarsi sui bisogni, le preferenze, le speranze e le preoccupazioni delle persone reali che hanno bisogno di cure. L’idea centrale era che la cura dovesse essere guidata dalle seguenti domande: di cosa ha bisogno Esther? Cosa vuole? Cosa è importante per lei, quando non sta bene? Di cosa ha bisogno quando lascia l’ospedale? Quali fornitori devono collaborare, per soddisfare le esigenze di Esther?

L’obiettivo principale, tuttavia, è determinare cosa è meglio per Esther. Il modello utilizza il miglioramento continuo della qualità, la comunicazione interorganizzativa, il problem solving e la formazione del personale, per fornire la migliore assistenza ai pazienti anziani con esigenze di assistenza complesse.

Obiettivi per Esther Obiettivi per gli erogatori dei servizi
·       Ricevere assistenza a casa o vicino casa;

·       Ricevere assistenza da diversi attori del processo come se fossero una sola entità;

·       Ricevere un’assistenza in modo uniforme in tutto il territorio;

·       Sapere a chi rivolgersi quando insorgono problemi.

·       Tutto il personale deve impegnarsi a dare priorità ai bisogni di Esther;

·       Impegnarsi a fornire supporto reciproco, per raggiungere il miglior risultato possibile per Esther;

·       Accrescere la competenza all’interno della catena di cura;

·       Continuo miglioramento della qualità.

Poiché molti dei problemi riscontrati da Esther coinvolgono più di un’entità, un problema centrale è stato rappresentato dal riunire persone, che operano a diversi livelli, presso varie organizzazioni. In proposito, sono state individuate diverse soluzioni ed è stata creata una struttura permanente per la gestione del progetto:

  • Un comitato direttivo dei responsabili dell’assistenza della comunità di comuni, ospedali e centri di assistenza primaria, per affrontare le sfide tra le organizzazioni;
  • “Esther café”, organizzati quattro volte l’anno nei Comuni facenti parte del progetto. Si tratta di incontri interorganizzativi e multiprofessionali, finalizzati a condividere e imparare dalle esperienze di pazienti specifici che sono stati ricoverati nell’ultimo anno ed hanno successivamente ricevuto assistenza domiciliare o altri servizi;
  • Seminari di formazione interorganizzativa su diversi argomenti, come le cure palliative, nutrizione e prevenzione delle cadute;
  • Un “giorno strategico” annuale in cui infermieri e altro personale, medici, manager, “Esther coach” (vedremo più avanti di cosa si tratta), così come le stesse “Esther”, ovvero i pazienti, si uniscono per formare una squadra e individuare priorità e idee per indirizzare i problemi di cura.

Il coordinamento del modello Esther avviene nel Qulturum, un centro per l’apprendimento e l’innovazione, dove vengono sviluppate iniziative sul miglioramento dell’assistenza e sullo sviluppo di innovazioni per i pazienti, nonché sul flusso di lavoro, i team, la leadership, la gestione e l’organizzazione dei servizi sanitari.

In tutte le riunioni viene presentato almeno un caso “Esther” per essere sicuri che la prospettiva del paziente venga sempre presa in considerazione. Il modello è una collaborazione di organizzazioni che partecipano volontariamente, in un rapporto da pari a pari: i coordinatori di Qulturum, infatti, facilitano le varie attività, ma non esiste una struttura gerarchica e nessuna singola organizzazione è proprietaria dell’intero processo. L’idea che Esther sia gestita da un network di attori è essenziale per affrontare i problemi di assistenza che possono sorgere quando più organizzazioni sono coinvolte: esse, infatti, non devono concentrarsi solo sui servizi che forniscono, ma anche pensare a chi sarà il prossimo fornitore e quali bisogni dovranno essere evidenziati e trasmessi, per facilitare il passaggio di Esther da un anello all’altro della catena assistenziale.

A partire dal 2006, il programma ha inoltre iniziato a formare “Esther coach” – membri dello staff clinico e amministrativo (non i dirigenti, quindi) – delle organizzazioni partecipanti. I coach sono in genere infermieri e personale di supporto, ma includono anche medici e terapisti occupazionali, assistenti sociali e personale amministrativo. I coach non ricevono una retribuzione aggiuntiva per questa attività, che è parte integrante del loro lavoro di routine. Per diventare un coach, i dipendenti ricevono otto giorni di formazione strutturata nell’arco di otto mesi, sui temi dell’analisi dei problemi, del miglioramento della qualità e dell’attenzione al cliente.

La forza nel modello Esther viene proprio dai coach, ha affermato la coordinatrice del progetto, Vackerberg. All’interno delle organizzazioni di cui fanno parte, essi sono in prima linea nel supportare progetti di miglioramento, introdurre idee per migliorare le competenze, creare collegamenti tra il lavoro quotidiano ed il miglioramento delle prestazioni, ispirare e motivare i colleghi a crescere e ad introdurre il “lean thinking”, ovvero utilizzare le risorse giuste nel posto giusto al momento giusto per ridurre al minimo gli sprechi, mantenere la flessibilità e rendere più fluidi i flussi di lavoro.

Il modello Esther ha comportato molti cambiamenti nel corso degli anni. Bojestig afferma che, come parte del suo lavoro, il team ha inizialmente esaminato la domanda e la capacità all’interno del sistema ed ha constatato che l’inadeguata capacità di pianificare l’assistenza costringeva i pazienti a cercare cure urgenti, in contesti inappropriati.

“Se Esther lamenta di mal di testa ed il suo medico le consiglia  di vedere un neurologo, nel nostro precedente sistema questa richiesta avrebbe richiesto tre mesi di attesa. Per Esther questo non era accettabile, per cui si sarebbe recata in pronto soccorso, con l’obiettivo di essere ricoverata ed ottenere la visita specialistica di un neurologo, il giorno seguente”.

Sebbene sembrasse che la domanda dei pazienti fosse finalizzata al ricovero  ospedaliero, in realtà la richiesta puntava ad ottenere un migliore accesso all’assistenza specialistica. Così il team ha testato un processo, in cui i tempi di attesa per ricevere un servizio sono stati riprogettati e da due “code” – una per la cura acuta ed una per la pianificazione e l’assistenza in regime di cronicità – si è passati ad una sola. “Il nostro focus si è spostato dal ricovero ospedaliero al team”, ha affermato Bojestig.

Il team, che comprende il GP i medici specialisti, gli infermieri ospedalieri e quelli di comunità, ha un rapporto più collaborativo, attraverso il quale si decide insieme ciò che è meglio per ciascun paziente. Quando un paziente presenta esigenze di assistenza acuta, afferma Bojestig, il GP può contattare uno specialista della squadra, che deve rispondere entro due minuti. Una consultazione telefonica o per email può comportare un ricovero ospedaliero, ma consente al paziente di essere ricoverato direttamente in reparto, senza dover subire i tempi di attesa in Pronto Soccorso, dispendiosi sia sul piano umano, per il dispiego di risorse fisiche e psicologiche, che richiede da parte del paziente e degli operatori, che finanziario.

Le transizioni tra differenti attori del processo di cura sono state ottimizzate, attraverso la comunicazione telefonica e via e-mail, tra i medici di base e gli specialisti dell’ospedale, per consentire quindi ai pazienti di essere ammessi direttamente in un reparto piuttosto che attraverso il Dipartimento di Emergenza. Le dimissioni ospedaliere sono state inoltre migliorate, fornendo ai pazienti una “safety receipt” (lett. ricevuta di sicurezza, n.d.A.), che include una checklist di elementi (farmaci, presidi, ecc.) che il personale ospedaliero deve esaminare con il paziente. Questo documento viene anche utilizzato per trasmettere informazioni agli enti che forniscono altri servizi sanitari e sociali al paziente.

È stato inoltre adottato un follow-up sistematico, entro 72 ore dalla dimissione dei pazienti dall’ospedale. I pazienti usufruiscono di un piano di assistenza individualizzato e di un medico di famiglia designato e ricevono un pacchetto di servizi, denominato “Welcome Back Home”, molto simile al britannico “package of care”, dallo staff dei servizi sociali del Comune.

Operatori dei servizi sociali sono presenti quando i pazienti tornano a casa dall’ospedale, per assicurarsi che tutto sia in ordine – che ci siano cibo, un letto pulito, presidi e farmaci corretti ed un allarme da polso personale, se necessario. Un’attenzione particolare è rivolta ai bisogni dei “focus patients”, cioè quelli che hanno avuto tre o più ricoveri in un anno, o rispetto ai quali lo staff nutra timori su una possibile riammissione ospedaliera.

Da parte loro, gli specialisti hanno iniziato a lavorare su protocolli di accessi “aperti” (open) in cui i pazienti possono essere visitati lo stesso giorno in cui vengono contattati dai pazienti stessi o dal GP.

È interessante notare che nel Regno Unito un’idea simile ha di recente condotto alla realizzazione di Rapid Access Clinic, ovvero ambulatori ad accesso rapido, in cui i pazienti con bisogni acuti vengono visitati in poche ore dalla richiesta di consulenza di un medico di famiglia o di un altro professionista. Una cooperazione più stretta tra specialisti ed altri professionisti ha fatto sì, inoltre, che GP ed infermieri di comunità fossero in grado di erogare prestazioni prima riservate ai soli medici specialisti.

L’awareness (letteralmente, dall’inglese, la consapevolezza od il livello di informazione del paziente sulla sua condizione cronica), è stata poi riconosciuta come un elemento critico per evitare le reammissioni. Gli infermieri sono stati formati, ad esempio, su come educare i pazienti cardiopatici ad effettuare misurazioni dei parametri vitali a casa propria ed a modificare, di conseguenza, il regime terapeutico.

Bojestig afferma che tutti i 250 professionisti coinvolti nel network hanno ricevuto una specifica formazione sugli obiettivi e sui processi del progetto. L’investimento è stato ripagato. “Abbiamo ridotto di circa il 20% il numero dei posti letto in alcuni centri, trasferendo tale capacità dove il bisogno è maggiore”.

Un “centro di competenza virtuale” è oggi utilizzato per trasmettere conoscenze ai professionisti, lungo la catena di cura. Ad esempio, i singoli professionisti possono iscriversi a seminari online su argomenti come la demenza o le cure palliative. Sulla base dei feedback espressi di partecipanti, è emerso che l’uso del centro ha rafforzato il lavoro di squadra e la comprensione dei diversi ruoli nella catena di cura, da parte degli attori.

Valutare l’impatto del modello Esther richiede cautela. Non è stato infatti concepito come un progetto di ricerca ed ha comportato molte modifiche organizzative e di processo, introdotte in diversi componenti del modello, in momenti diversi. Sono stati osservati cambiamenti positivi, ma è difficile attribuirli al progetto, in assenza di informazioni comparative. Tenendo ben presenti queste precisazioni, i leader del programma vantano risultati significativi:

  • Le ammissioni nelle Unità operative di medicina dell’Höglandet Hospital sono diminuite dalle 9.300 nel 1998, alle 6.500 nel 2013. I giorni complessivi di degenza nel reparto medico e geriatrico sono passati dai 48.222 nel 2002, ai 44.769 nel 2013. Tuttavia, cambiamenti simili sono stati riportati anche altrove in Svezia.
  • Le riammissioni ospedaliere entro 30 giorni, per i pazienti di 65 anni e più, sono diminuite dal 17,4% nel 2012, al 15,9% del 2014. Nella comunità di Tranås, dove è stato introdotto un nuovo pacchetto “Welcome Back Home” per i pazienti dimessi, il tasso di riammissione è sceso al 12,1% nel 2014.
  • La degenza ospedaliera è diminuita, tra il 2009 e il 2014, da 3,6 a 3 giorni per gli interventi chirurgici e da 19,2 a 9,2 giorni per la riabilitazione. La durata ridotta della permanenza in ospedale era già una tendenza generale in Svezia, ma il cambiamento nella durata dei tempi di riabilitazione è il risultato di uno sforzo specifico condotto nell’ambito del modello Esther, per spostare la riabilitazione all’interno o vicino al normale ambiente di vita del paziente.
  • Sondaggi condotti nella Contea di Jönköping nel 2008 e nel 2011 hanno infine dimostrato che i pazienti inseriti nel progetto Esther si sentono al sicuro e apprezzano i contatti con il personale che incontrano nel percorso di assistenza.
  • Già nel 2003 i tempi di attesa per una visita specialistica, per esempio gastroenterologica, si erano ridotti a 14 giorni.

Il progetto, nel corso degli anni, ha conosciuto e superato molti ostacoli e sfide. Far diventare gli attori del processo agenti di cambiamento, mettendoli in condizione di avere visione e conoscenza degli strumenti di miglioramento della qualità, può creare tensioni. Ad esempio, apportare modifiche in un particolare aspetto del processo può cogliere di sorpresa la leadership organizzativa, se questa non viene previamente informata.

I leader giocano poi un ruolo importante nel generare cambiamenti: una leadership di supporto può determinare cambiamenti positivi, mentre una conservatrice e gerarchica può bloccare i cambiamenti che andrebbero a vantaggio di “Esther”. I leader del modello, poi, incoraggiano i responsabili delle organizzazioni coinvolte ad impegnarsi a sostenere i cambiamenti proposti dai coach Esther, ma l’impegno al cambiamento non può trasformarsi in forzatura od imposizione, per cui talora si riscontra una tendenza generale a ritornare ad atteggiamenti e procedure consolidate.

Anche le leggi sulla privacy, che limitano la condivisione delle informazioni da parte degli ospedali e delle organizzazioni che forniscono assistenza domiciliare hanno dato origine a situazioni problematiche. Tuttavia, una volta ottenuto il consenso dei pazienti, i professionisti possono utilizzare un sistema di comunicazione elettronico, per condividere informazioni relative al ricovero, alla dimissione ed alla pianificazione dell’assistenza.

Predisporre un budget adeguato si è poi rivelato difficile. Quest’ultimo ammontava a 1,8 milioni di corone svedesi (circa 265.000 euro) nel 2011, che coprivano il salario dei coordinatori, la formazione dei coach e nuovi progetti di miglioramento. L’attuale bilancio proviene dal Consiglio della contea di Jönköping e copre le spese di riunione ed il training dei coach. I coordinatori sono pagati attraverso i bilanci delle organizzazioni di appartenenza.

Il “modello Esther” è stato sviluppato come uno sforzo collaborativo volontario, in una piccola regione, in cui la vicinanza tra gli operatori ha consentito incontri faccia a faccia. È difficile immaginare il modello esportato nella sua interezza in contesti più complessi. Tuttavia, molte delle sue strategie sono applicabili ben oltre una subregione di una contea svedese. In effetti, progetti simili sono attivi altrove in Svezia e la replica si sta verificando anche in altri Paesi.

Sviluppare un modello Esther o similare potrebbe essere più fattibile, laddove le singole organizzazioni sono responsabili su più livelli della catena dell’assistenza, oppure dove gli ospedali servono regioni geografiche ragionevolmente ben definite. Meccanismi giuridici ed economici che  definiscono in modo chiaro responsabilità dei pazienti edegli attori della catena di cura probabilmente facilitano l’adozione del modello, così come gli incentivi finanziari che dissuadono pratiche dannose per i pazienti e che sprecano risorse, come i ricoveri ospedalieri non necessari. Un’importante evoluzione del progetto può consistere semplicemente nel cambiare la prospettiva della domanda fondamentale, passando dal chiedersi “Cosa è meglio per Esther?” a chiedere direttamente ad Esther cosa è meglio per lei.

L’approccio di questo modello, comunque, non ha solo rappresentato una strategia innovativa nel coordinamento tra le strutture assistenziali ed attori del processo di cura, ma ha concretamente collocato la persona al centro del processo stesso. Importare il modello richiederebbe la volontà dei dirigenti sanitari di assumere impegni organizzativi di alto livello ed attuare investimenti a lungo termine, nel contesto del miglioramento della qualità interorganizzativa. A sua volta, questa volontà dipenderebbe dal credere che dalla collaborazione reciproca deriverebbe un sostanziale vantaggio economico.

Il modello Esther costituisce un’isola dell’innovazione, che, se adeguatamente adattata e realizzata in altri contesti, può accelerare il passaggio verso un sistema di cura incentrato sulla persona. Adottare un approccio sistemico, come quello del modello Esther, per soddisfare i bisogni degli anziani fragili è comunque ancora inusuale e difficile, perché basato su quello che il capo del progetto, Nicoline Vackerberg, chiama “il potere delle storie dei pazienti”. Queste storie, che sono scelte e raccolte come parte integrante del modello, mostrano come le vite dei pazienti sono influenzate dai loro problemi di salute e dalle loro esperienze nel ricevere cure. Occorre poi creare meccanismi, per aiutare diversi professionisti a pensare insieme per risolvere i problemi.

Luigi D’Onofrio
Italian Nurses Society

Fonti:

 

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