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Il mio tirocinio in Terapia Intensiva Neonatale “perfino un grande prematuro può avere più forza di chiunque altro”

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WORLD PREMATURITY DAY: la giornata dei bimbi nati prematuri. Alcuni dati
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Riportiamo di seguito l’importante esperienza di Martina, studentessa in infermieristica al 3° anno, che in questo breve racconta ci trasmette tutte le sue emozioni nell’affrontare il tirocinio tecnico pratico nel nuovo reparto

Un travolgente turbinio di sentimenti e sensazioni positive che riflettono i valori delle professioni “d’aiuto” così come è considerata quella infermieristica.


Quattro mesi fa ricevetti la lettera di assegnazione del tirocinio di terzo anno, quel tanto atteso ultimo anno che finalmente era arrivato. Ero ansiosa di leggere i nomi degli ultimi due reparti a cui sarei stata assegnata. Avevo passato settimane a fare ipotesi, ma non sapevo cosa aspettarmi. Era il 15/10/2018 e mi trovavo in viaggio con la mia famiglia quando, dai troppi messaggi nel gruppo dell’Università, capii che il momento tanto atteso era giunto.

Finalmente riuscii ad accedere al portale dedicato ed ecco che quelle ipotesi si concretizzarono: Utin e Pronto Soccorso Ostetrico. Provai delle emozioni indescrivibili, smisi perfino di ascoltare l’audio guida.

Ero felice, non vedevo l’ora, ma allo stesso tempo ero terrorizzata. Quando lessi Utin pensai “E se non fossi stata in grado?! E se non avessi retto a livello emotivo?! Se non mi avessero fatto fare nulla?!”

Forse mi ero lasciata trasportare dai troppi pregiudizi.
Così arrivo il fatidico 29 ottobre, avevo un esame il giorno seguente, ma ero talmente trepidante di iniziare che abbandonai il ripassone pre-esame pur di presentarmi in reparto.

Mi ci volle un po’ prima di capire come si svolgeva il lavoro, quasi una settimana in sub intensiva e poi decisi di lanciarmi verso la Tin vera e propria.

Era il primo reparto pediatrico. Inizialmente ero molto demoralizzata, mi sembrava di aver ricominciato il tirocinio di primo anno, ero impacciata e spaventata. Talmente tanto che ero terrorizzata perfino dal cambio pannolino. Mi sentivo così grande, in senso fisico, temevo di sbagliare e di poter “rompere” quei piccolini.

Ma non mi arresi, ogni giorno continuai ad andare in reparto, ad imparare qualcosa in più, a sbagliare di meno. E qualcosa effettivamente si ruppe, ma dentro di me.

Con tanto impegno e tanta fatica riuscii ad abbattere ogni preconcetto, ogni convinzione e ogni idea sbagliata iniziale.

Capii che perfino un grande prematuro può avere più forza di chiunque altro.

Ricordo il primo bagnetto, e gli occhioni di C. che mi fissavano, 1 chilo e 400 grammi di amore che si adagiavano perfettamente alla lunghezza del mio avambraccio.

Ricordo la prima volta che tenni in braccio una piccolina e la cullai. Era un pomeriggio tranquillo, uno come tanti, ogni bimbo era con i propri genitori per la marsupio terapia, mentre M. G. era sola e non smetteva di piangere.

Presi una copertina e un lenzuolo e me la tenni stretta tra le braccia cercando di farla calmare. Smise subito e restammo cosi per circa mezz’ora, guardandoci e sorridendo, almeno finché non rigurgitò sulla mia divisa.

Ricordo C. e la gioia dei genitori nel riportarla finalmente a casa dopo 4 mesi. Ricordo V. che nonostante un intervento cardiochirurgico e tanti problemi è riuscita a far ricredere tutti e a tornare a casa con i suoi cari. Poi anche F. , che i primi giorni guardavo incredula per quanto fosse piccolo, riusciva a perdersi perfino nel pannolino più piccolo che avessimo. Adesso è un bellissimo bambino cicciottello con le guanciotte e il doppio mento.

L. e le lacrime della mamma che dopo 23 giorni finalmente lo riprende tra le sue braccia.
A., il mio bimbo speciale, che nonostante i tanti problemi dati dalla prematurità e non, continua a restare appeso alla vita.

Un grazie va a tutti loro e coloro che non ho nominato ma il cui nome e il cui ricordo resta comunque impresso sul mio cuore.

Il ringraziamento più grande va agli infermieri del reparto, che con pazienza mi hanno accompagnato in questo percorso e hanno contribuito a renderlo speciale.

A quelli che ci si capiva con uno sguardo quando qualcosa stava andando storto, a quelli che ci hanno messo un po’ di tempo prima di fidarsi e a chi ha riposto subito tanta fiducia in me, a quelli che ogni scusa era buona per spiegarmi qualcosa di nuovo, a quelli che da subito mi hanno accolto nella loro famiglia.

Perché l’utin è anche questo: famiglia. Ogni infermiere diventa “zio” e ogni bimbo lo assisti un po’ come fosse figlio tuo.

Pazienza, dedizione, precisione e passione, tutte qualità che un infermiere di tin deve far proprie. Bisogna imparare a fare i conti con sé stessi, con i propri limiti e con le proprie emozioni. In un solo turno puoi passare dall’essere felice all’essere triste anche una decina di volte.
Ma poi pian piano ci si abitua, all’odore di latte che mi portavo dietro anche a casa, al suono dei monitor, al fruscio dei ventilatori meccanici, a muoversi velocemente nelle emergenze, alle gambe che tremano, a cacciare indietro le lacrime e agli sbalzi di umore costanti.
Ma poi arriva un momento in cui qualsiasi abitudine smette di essere tale, un momento in cui si giunge alla fine, e allora rivivi con nostalgia tutto ciò che è passato. E questo momento fu per me l’ultimo giorno, un giorno che avevo cercato di rimandare il più possibile, perché dentro di me non riuscivo ad ammettere che mi sarebbe mancato.

Capii che l’universo mi aveva lanciato un segnale, capii di essere esattamente dove dovevo stare. Capii che quella esperienza, nonostante fosse giunta al termine, aveva dato inizio a qualcosa di molto più grande. Quel giorno andai in sub intensiva per finire come avevo iniziato, ma con più consapevolezza, non solo di ciò che facevo, ma anche di ciò che ero diventata.

 

Martina, studentessa al 3° anno di Infermieristica

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