Una conversazione intercorsa tra due infermiere su Whatsapp è costata cara a due infermiere dipendenti di una clinica privata riminese.
Le due donne hanno difatti criticato il coordinatore infermieristico in una chat venendo successivamente sospese per dieci giorni dopo che un collega avrebbe riportato gli screenshot ed i messaggi vocali al diretto interessato.
Ma le due professioniste non hanno voluto in alcun modo accettare tale provvedimento, dichiarandosi intenzionate a ricorrere contro tale “punizione”.
A finire molto peggio è stato il collega “spione”, ora sotto inchiesta dei magistrati della Dda. Divulgare conversazioni apparse su Whatsapp rappresenterebbe una violazione della privacy altrui, configurando per i giudici un reato da Distrettuale antimafia.
«Io non ho nessuna intenzione di assogettarmi alla sospensione – dice una delle due infermiere, rappresentata dall’avvocato Piero Venturi – è un’ingiustizia. Ho parlato in privato con una collega fuori dall’orario di lavoro e ci è stata rubata la conversazione».
I fatti risalgono al 2017, quando le due colleghe nel mirino si scambiano appunto una serie di messaggini audio sulla coordinatrice del reparto con cui non hanno rapporti idilliaci. Parlano scherzando di darle la «mazzata finale» creando una «bambola» (wodoo) e via così.
Tutti gli infermieri, appena arrivano al lavoro, vengono costretti a riporre il cellulare in una stanza accessibile a tutti. E ben presto si accorgono che qualcuno ha copiato quei messaggi e li ha mostrati all’oggetto delle loro frecciate.
La coordinatrice monta un pandemonio e le due vengono sospese per dieci giorni. A quel punto le infermiere passano al contrattacco e vanno a denunciare tutto in Procura. Le indagini portano dritte ad un collega della struttura, che però nega ad oltranza sostenendo di non avere colpe. Sarebbe soltanto uno dei destinatari di quei messaggi arrivati a lui per caso da un numero sconosciuto.
La Dda chiede così l’archiviazione per l’indagato, ma gli avvocati delle due infermiere hanno già presentato opposizione. «Il fatto ancora più grave – commenta l’avvocato Venturi – è che la clinica non abbia collaborato in alcun modo».
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