“Ho avuto un sarcoma osseo a 18 anni, quando ero ancora abbastanza ingenua a spensierata da non capire il rischio che stavo correndo. I medici mi hanno salvato la vita, perciò mi sono laureata in medicina e chirurgia per aiutare altri, come è stato fatto a me. È il modo più utile che ho trovato per dire: grazie”.
Elisa ha 27 anni e sta facendo la specializzazione per diventare medico di famiglia, perché “è lì che si gioca la parte più importante: nella capacità di individuare per tempo i possibili segni di un tumore, così da anticipare il più possibile la diagnosi e la cura”.
Quando per la prima volta iniziò a sentire un dolore al ginocchio sinistro, nell’estate 2010, la parola tumore non era minimamente tra le sue paure. “Il fastidio compariva ogni tanto, quando facevo le scale o in alcune posizioni. Nell’arco di tre mesi è aumentato e diventato molto frequente, anche a riposo. Ma è un tipo di dolore che, specie nelle prime fasi, è simile a molti altri tipi di patologie del ginocchio. Dopo circa due mesi, il mio medico di base mi prescrisse una risonanza magnetica”. Il referto lasciava pochi dubbi: in realtà il male si sarebbe già visto anche con una semplice lastra, ma era difficile pensarci perché l’osteosarcoma, tumore aggressivo che colpisce le cellule ossee, è molto raro.
All’Ospedale Ortopedico Rizzoli di Bologna, centro di riferimento per questo tipo di neoplasia, Elisa è stata operata e il suo ginocchio sostituito con una protesi. Sono seguiti 13 cicli di chemioterapia, di cui 4 prima dell’intervento (chemio neoadiuvante) e nove dopo (chemio adiuvante).
“Era l’anno del quinto superiore e, da settembre a maggio, lo ho trascorso entrando e uscendo dall’ospedale, in un reparto che è quasi pediatrico, perché questi tumori colpiscono spesso i giovanissimi”. Era ancora ingenua e spensierata e le conseguenze di un tumore non la sfioravano. “Il mio primo pensiero all’idea delle terapie non fu: “sopravviverò?” ma “mi cadranno i capelli”?
E i capelli infatti caddero, così come le sopracciglia e i peli, andava a scuola con una stampella e una parrucca, era pallida e gonfia per il cortisone. Ma questo non le ha impedito di continuare a frequentare le amiche e, persino, andare a ballare. Così come non le ha impedito di continuare a studiare e ottenere la maturità scientifica. I professori talvolta le facevano lezione a casa perché la chemio debilita le difese immunitarie, e ogni virus o batterio avrebbe potuto avere conseguenze gravi.
“La cosa che mi pesava era dover dipendere completamente da qualcuno, anche per prendere una forchetta mentre ero a tavola, perché non riuscivo ad alzarmi e camminare. Ma non avevo paura”.
Quella sorta di inconsapevolezza era però sparita quando a Elisa, cinque anni dopo, venne diagnosticata una recidiva. Aveva 23 anni e nel frattempo aveva iniziato a studiare medicina ed era andata un mese in Kenya per fare volontariato in ospedale.
Al ritorno, come al solito, fece i controlli di routine. Ma stavolta era visibile una metastasi a livello polmonare, per la quale è stata nuovamente operata. “Il problema era che, mentre a 18 anni ero spensierata e non capivo il concetto di morte, adesso ne avevo piena consapevolezza. Quindi ho vissuto molto peggio questo periodo, anche se non ho dovuto ripetere la chemioterapia. E i controlli, da allora, sono diventati più angosciosi”.
Degli anni al Rizzoli sono rimaste grandi amicizie con ragazze come lei ricoverate. E un prezioso tesoro: “la capacità di non dare mai per scontate le cose, anche il solo camminare, e di non rimandarle come se ci fosse sempre un domani”. L’obiettivo di Elisa è ora diventare medico di base.
“Avevo iniziato la specializzazione in oncologia, ma uno dei motivi per cui ho deciso di cambiare è che quando un paziente arriva da un oncologo in alcuni casi è già tardi. Il primo medico con cui è a contatto è quello di famiglia. E, spesso, lui fa differenza”.
Redazione Nurse Times
Fonte: Ansa
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