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Coronavirus. La virologa Capua “Si dovrebbe chiamare sindrome influenzale”

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Coronavirus: le dichiarazioni della virologa Ilaria Capua
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Di seguito riprendiamo le dichiarazioni della dott.ssa Ilaria Capua, virologa, che negli Stati Uniti dirige la One Health Center of Excellence dell’University of Florida

“Chiamiamo le cose con il loro nome: questa che stiamo vivendo oggi, con sedici casi finora accertati in un giorno solo, è una emergenza sanitaria che possiamo chiamare sindrome influenzale da Coronavirus. Influenzale, già. Perché questa infezione provoca nella stragrande maggioranza dei casi sintomi molto lievi e solo in pochi casi – con patologie intercorrenti e con situazioni particolari – provoca effetti gravi. Esattamente come ogni normale influenza.

Che cosa stiamo osservando di diverso, allora? Perché siamo tanto spaventati?

Semplice: perché alcuni hanno avuto l’ottimismo un po’ illusorio di fermare un virus con questo elevatissimo livello di trasmissibilità. Abbiamo creduto che la Cina, con le misure draconiane che ha messo in atto, potesse tenersi tutto il contagio.

Era illusorio, e ora lo vediamo in tutta la sua banalità. Anche perché c’è stata una grossa movimentazione di studenti prima delle misure di quarantena, a causa delle vacanze legate al capodanno cinese.

Sebbene l’epicentro fosse Wuhan e la provincia di Hubei, la trasmissione era già iniziata da settimane e la sindrome influenzale da Coronavirus era già uscita nel resto della Cina. Queste persone, già contagiate, ne hanno contagiate altre, che a loro volta si sono mosse ancora. Ecco perché oggi abbiamo un focolaio con alta trasmissibilità in Giappone, così come in Corea, così come in Iran. Sinceramente, non si capisce per quale motivo pensassimo che l’Italia potesse immaginare di essere risparmiata. Perché i virus non aspettano. E l’efficacia delle misure di quarantena è legato all’immediatezza della risposta.

Noi però siamo un Paese occidentale, con un sistema sanitario che funziona, e di questo dobbiamo essere orgogliosi e consapevoli.

Però dobbiamo fare anche altro: dobbiamo fare il più grosso sforzo di responsabilità collettiva della nostra Storia. Il problema vero di questa malattia è infatti che si infettino tantissime persone contemporaneamente. Cosa che bloccherebbe i servizi, intaserebbe gli ospedali e darebbe un grosso colpo alla produttività del Paese.

Nei prossimi giorni, presumibilmente, saranno suggerite una serie di linee guida proposte dalle organizzazioni internazionali che saranno recepite dallo Stato, dalle Regioni, dai Comuni. Noi dobbiamo semplicemente – si fa per dire – fare lo sforzo di rispettare quelle regole. In questo momento non c’è tempo per l’improvvisazione. Non c’è tempo di dire “Io non credo a quel che mi dicono le istituzioni”. Non c’è tempo per fake news, teorie del complotto, negazionismo. È un’emergenza sanitaria, questa, che non riguarda noi come singoli, ma che ci riguarda come comunità e come sistema Paese. Noi dobbiamo essere parte della soluzione e non parte del problema.

Questo però è il momento di opporre al virus una reazione di grande coscienza collettiva. Dobbiamo fare forse il più grande sforzo di responsabilità della nostra epoca. Il problema vero di questa malattia è legato ai numeri: se il contagio coinvolgesse tantissime persone contemporaneamente correremmo rischi gravissimi. Nell’ipotesi che si dovesse ammalare (o mettere in quarantena) il 20 per cento della popolazione italiana, si bloccherebbero i servizi, si intaserebbero gli ospedali e si darebbe un grosso colpo alla produttività del Paese.

Non illudiamoci: ci vorrà un anno per trovare il vaccino e mi aspetto che la sindrome influenzale da coronavirus continuerà a diffondersi sino a primavera inoltrata.

Nel frattempo l’Italia, come il resto dei Paesi del mondo, devono non solo seguire le linee guida internazionali, ma attuare comportamenti individuali in grado di rendere la vita più difficile al virus. Penso quindi che durante il picco dell’epidemia le scuole potrebbero lasciare a casa i propri allievi e sostituire l’insegnamento diretto con piattaforme tipo Skype o FaceTime”.

Redazione Nurse Times

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