Rilanciamo un articolo a firma di Giuseppe Marangelli, pubblicato sul periodico di Opi Bari.
In questo momento storico, particolarmente critico da un punto di vista sanitario, sono emerse tutte le criticità derivanti dal non buon funzionamento della medicina territoriale. In tutti questi anni, non aver sviluppato e implementato modelli gestionali, attraverso i quali “delocalizzare” tutte le attività assistenziali che oggi, per necessità, devono essere svolte a domicilio, ha determinato il verificarsi di rilevanti problemi a carico dell’intero Sistema sanitario, con il rischio di non riuscire a dare le necessarie risposte a tutti i cittadini.
Oggi, a qualche mese dall’esordio dell’epidemia di Covid-19, i dati stanno dimostrando in maniera inequivocabile che, laddove la risposta è stata prevalentemente e/o esclusivamente di tipo ospedaliero, il tasso di mortalità per Covid-19 è stato di gran lunga più alto che in altri posti, dove vi è stato un deciso coinvolgimento del territorio. Ancora una volta, la medicina di prossimità, ha dimostrato il proprio valore, in particolare grazie all’assistenza resa al domicilio dei pazienti.
Sulla base di questi dati il legislatore è corso ai ripari, con l’obiettivo di decongestionare le strutture ospedaliere ed evitare che certi luoghi diventassero focolai di diffusione del contagio. In data 9 marzo, con il D.L. n. 14/2020 (art. 8), sono state istituite le Unità speciali di continuità assistenziale (USCA). Il Decreto ha stabilito che, al fine di consentire al medico di medicina generale o al pediatra di libera scelta o al medico di continuità assistenziale di garantire l’attività assistenziale ordinaria, le Regioni istituiscono, entro dieci giorni dall’entrata in vigore dello stesso Decreto, presso una sede di continuità assistenziale già esistente, una Unità speciale ogni 50mila abitanti per la gestione domiciliare dei pazienti affetti da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero.
Lo stesso Decreto ha stabilito che ciascuna Unità speciale è costituita da un numero di medici pari a quelli già presenti nella sede di continuità assistenziale prescelta. Possono far parte dell’unità speciale: i medici titolari o supplenti di continuità assistenziale; i medici che frequentano il corso di formazione specifica in medicina generale; in via residuale, i laureati in medicina e chirurgia abilitati e iscritti all’ordine di competenza. Inoltre sempre lo stesso Decreto ha stabilito che le Unità speciali devono essere attive sette giorni su sette, dalle ore 8 alle ore 20. Le USCA, istituite col D.L. 14 del 9 marzo 2020, dovevano essere attivate entro il 20 marzo da tutte le Regioni. Purtroppo, alcune Regioni, compresa la Regione Puglia, non le hanno attivate così come previsto dal Decreto.
Il problema più importante è rappresentato dalle eccessive differenze attuative su come gestirle, sulla loro costituzione e sulle loro funzioni. Tra le Regioni italiane, come il Veneto, proprio sull’esperienza fatta sul campo, è stato predisposto un “Piano”, che ha introdotto la presa in carico diretta del paziente sintomatico “sospetto Covid-19” da parte del medico di medicina generale e l’intervento diretto delle Unità speciali di continuità assistenziale (USCA), le quali garantiscono l’assistenza a domicilio di tutti quei pazienti, sintomatici, sospetti o positivi, che non necessitano di ricovero.
Le USCA sono state attivate preferibilmente presso sedi di continuità assistenziale, ciascuna equipe ha un bacino di riferimento di circa 50mila abitanti e sono attive tutti i giorni della settimana, esclusa la notte. L’attività domiciliare dei medici dell’USCA è garantita, se possibile, con il contestuale accesso di un infermiere del Servizio di assistenza domiciliare del Distretto o della Medicina di gruppo integrata, qualora insista nel bacino di riferimento.
L’Emilia Romagna, con le 81 USCA istituite, in campo con oltre 400 medici e con migliaia e migliaia di prestazioni già erogate, al momento rappresenta sicuramente il modello di riferimento, un modello vincente e funzionale capace di arginare i fenomeni epidemici. Il gran volume di attività già erogate, tra visite domiciliari, terapie, triage telefonici e visite alle residenze per anziani, hanno avuto la capacità di intercettare il virus, grazie a un valido e reale supporto alla rete della medicina di base e all’alleggerimento della pressione sugli ospedali.
Oltre ai medici, sono impegnati oltre un centinaio di infermieri, operatori socio-sanitari e altro personale. Vere e proprie “squadre” formate da medici di famiglia, specialisti, infermieri, con un compito ben preciso: individuare e assistere, al proprio domicilio, le persone affette da Covid-19 che non necessitano di ricovero ospedaliero. Tra le principali prestazioni svolte dalle Unità speciali di continuità assistenziale, le cosiddette USCA, oltre ai tamponi, ad esempio, sono stati effettuati elettrocardiogrammi, ecografie polmonari, somministrazione di terapie, visite alle residenze anziani.
In Puglia, di contro, ci sono state e ci sono, al momento, grosse criticità e si è ben lontani dai modelli vincenti del Veneto e dell’Emilia Romagna, anche in termini di volumi prestazionali erogati. Ovviamente, relativamente alla composizione delle USCA, in Puglia non vi è traccia alcuna della presenza di personale infermieristico e altro personale sanitario. Insomma, in Puglia fa rumore il fatto che le USCA sono composte da soli medici. Questo tipo di scelta, per forza di cose, non riesce a rispondere ai numerosi bisogni della popolazione di utenti affetti da Covid-19 costretti a domicilio, spesso anche in condizione di solitudine, ai quali si offriranno, nella migliore delle ipotesi, delle risposte parziali.
Redazione Nurse Times
Fonte: Filodiretto – Periodico di Opi Bari
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