Rilanciamo la testimonianza rilasciata da una collega alla Voce di Asti.
“Questi mesi sono stati surreali. All’inizio non sembrava possibile. Tornavamo a casa in lacrime”. Inizia così il racconto di un’infermiera dell’ospedale Cardinal Massaia di Asti, attiva nel reparto Covid in piena emergenza sanitaria. Una voce sicura e fiera, che nasconde, però, un vago senso di malinconia. Preferisce che di lei non si parli, ma ci tiene molto a raccontare la sua esperienza, anche a quei negazionisti che credono che il virus non sia mai esistito.
Dopo vent’anni di servizio all’Asl di Asti, in Medicina, si trova catapultata in una situazione paradossale. I pazienti non sono più gli stessi di sempre con cui poter parlare, instaurare un rapporto: “Eravamo – dice – abituati ai pazienti di Medicina, che stanno in reparto molto tempo. All’inizio della pandemia i malati stavano malissimo, ed emotivamente per noi la lotta è stata dura”.
E spiega che, nei primi tempi di questa emergenza mondiale, all’Asl di Asti i pazienti spesso non potevano nemmeno sostenere una telefonata o una videochiamata ai parenti. Non ce la facevano, perché il corpo era debilitato e le difficoltà respiratorie erano troppo impattanti: “Vederli in difficoltà, da soli in quelle stanze, senza il calore dei familiari… Uscivamo dal lavoro piangendo. Ma ci siamo dati una mano. Questa tragedia ha unito ancora di più il nostro gruppo di lavoro”.
Sì, perché con la nostra testimone lavorano altri 25 infermieri, sei medici e circa 15 oss. Una task-force speciale, umana, che ha lottato e continua a lottare per fronteggiare un virus inaspettato e aggressivo. Quando le chiediamo di raccontarci cosa le resterà impresso nella memoria di tutta questa esperienza, lei non ha dubbi. “Nessuno di noi potrà mai dimenticare le morti di queste persone. Quando morivano c’eravamo solo noi, nessun caro”.
Oggi i bollettini dei contagi e le notizie nazionali sembrano più confortanti, e anche dall’Asl di Asti arrivano buone notizie. Sembra che questa battaglia stia attraversando una fase nuova, fatta di speranza e di convivenza con un virus non ancora sconfitto, ma molto debilitato: “Oggi la nostra Medicina è una zona grigia. Significa che qui da noi si fermano pazienti che hanno fatto il primo tampone e attendono di fare il secondo. Siamo un reparto di passaggio”.
Gli addetti ai lavori, però, continuano a indossare scafandri, guanti, mascherine, tute e calzari. Un “outfit” che li ha sempre fatti sembrare alieni, venuti da un altro pianeta, ma non ha mai smesso di farli sembrare umani. Come realmente sono: non hanno mai smesso di sorridere, dietro quella mascherina, o di regalare un dolce sguardo, sotto quelle visiere. “All’inizio – racconta ancora l’infermiera –, quando dovevamo ancora abituarci alla vestizione, ci mettevamo molto a prepararci. Ci sentivamo mancanti, perché eravamo lenti. Ora ci viene in automatico, ma il caldo non aiuta. Lì sotto si fa la sauna, senti il sudore che cola per il corpo e ti bagni dalla testa ai piedi”.
Nonostante tutto, loro c’erano. Nessuno si è tirato indietro: “In reparto avevamo persone di tutte le età. Anche un ragazzo di 27 anni. Vederli faticare così tanto a respirare è stato bruttissimo. Ora la situazione si è alleggerita, ma temiamo di dover rivivere di nuovo questo incubo da settembre. Alcuni piccoli gesti sono fondamentali e dovrebbero già fare parte della nostra educazione, come lavarsi le mani”.
Redazione Nurse Times
Fonte: la Voce di Asti
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