La situazione attuale consente di rimuovere lo stop alle limitazioni per le visite dei famigliari.
Nonostante tivù e giornali tentino di tenere sempre alta l’allerta, la fase acuta del Covid-19 è alle spalle: basta guardare i numeri e/o farsi un giro nei nostri reparti. Le CPAP, le rapide desaturazioni, le insufficienze respiratorie, le intubazioni e ahimè i decessi, sono ormai un brutto ricordo. Pian piano, pur con le dovute precauzioni, si è tornati alla vita normale: hanno riaperto bar, ristoranti, discoteche, librerie…
Tuttavia, in gran parte delle strutture ospedaliere d’ Italia, le porte delle unità operative, rimangono ancora chiuse alle visite dei parenti. L’accesso di famigliari e visitatori è ancora considerato pericoloso e, quindi, rimane interdetto. Queste politiche restrittive sono motivate dal timore riguardo al rischio di riesplosione del contagio. Tuttavia queste paure sono irrazionali e infondate, se pensiamo che al di fuori dell’ospedale tutto è tornato alla normalità.
Negli ospedali della penisola spuntano regolamenti che applicano diverse gradualità di limitazioni: ci sono strutture che interdicono totalmente le visite dei parenti anche di pazienti critici e/o terminali, altre che impongono limitazioni alle visite dei familiari sia sul versante del numero di visitatori ammessi, sia su quello del tipo di visitatori (sono ammessi solo famigliari più stretti), sia sul tempo per la visita (massimo 10 minuti). Altre strutture concedono visite più prolungate per pazienti critici e/o in fine-vita.
Al momento del ricovero, dunque, i nostri pazienti vengono letteralmente sottratti agli affetti dei famigliari e rinchiusi nelle loro camere di degenza. Queste limitazioni fanno sì che il paziente sia completamente spersonalizzato, come se privarlo della sua dimensione relazionale fosse un normale prezzo da pagare in cambio di terapie volte alla guarigione, in tempo di (post) Covid.
Negli ultimi anni è aumentata l’attenzione dei sanitari sul tema umanizzazione delle cure, perché si è capito che laddove si instaura un adeguato “triangolo relazionale” tra curanti, pazienti e familiari, si abbassano i contenziosi legali. Un esempio su tutti è la rivoluzione copernicana delle terapie intensive aperte. Poi è bastato un virus a farci fare un balzo indietro di 20 anni, a ulteriore riprova che l’ospedale rimane una delle grandi invarianze della società moderna.
Sono tante ancora le resistenze culturali riguardo alla presenza di famigliari percepiti come un ostacolo all’assistenza. Tuttavia, in molti casi, la presenza del caregiver è una valida risorsa per l’assistenza infermieristica. Pensiamo a quando non riusciamo a garantire un adeguato monitoraggio a causa della carenza di personale per pazienti in stato di agitazione psicomotoria: la presenza del caregiver riduce il rischio di caduta accidentale ed è una valida alternativa alle contenzioni fisiche e/o farmacologiche. Pensiamo, inoltre, a quando non riusciamo a mobilizzare un paziente o ad assisterlo per l’alimentazione. E poi numerosi dati della letteratura scientifica suggeriscono che la presenza di famigliari e visitatori riduce in modo significativo le complicanze cardio-vascolari e gli indici ormonali di stress (Fumagalli S. et al. Reduced cardiocirculatory complications with unrestrictive visiting policy in an intensive care unit: results from a pilot, randomized trial. Circulation 2006;113:946-52).
In conclusione, uno dei nostri valori caratterizzanti è l’advocacy, cioè l’essere garante nei confronti di un assistito allo scopo di aiutarlo a operare scelte consapevoli per la propria salute e per supportarlo nella difesa dei propri diritti. Se durante la fase acuta della pandemia le limitazioni all’accesso dei famigliari era una misura emergenziale e straordinaria per impedire l’espandersi del contagio, adesso bisogna tornare alla normalità, anche in ospedale. Il nostro paziente ha diritto a essere accompagnato, nel tempo della malattia, dalle persone per lui più significative.
La presenza dei famigliari accanto ai nostri assistiti non è una sorta di “concessione”, ma rappresenta una scelta utile e motivata, una risposta efficace ai bisogni del malato e della sua famiglia. Questa scelta esprime il rispetto e l’attenzione dovuti al paziente e alla sua dignità di essere umano. Invito le associazioni dei pazienti a muoversi in class action per rivendicare un loro diritto. Da parte nostra, il massimo appoggio.
Raffaele Varvara
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