Riceviamo e pubblichiamo un comunicato stampa a cura del presidente nazionale del sindacato.
Va doverosamente premesso che il nostro sindacato, che ha seguito l’emergenza sanitaria dal primo all’ultimo momento, sostiene l’indispensabilità della immunoprofilassi vaccinale come strumento di tutela della salute pubblica. Nel lontano giugno 2021, all’acme dell’emergenza sanitaria, durante la gestione dell’allora commissario al Covid, generale Figliuolo, furono ufficializzati i dati dei professionisti non vaccinati, circa 45mila (per la maggior parte medici e infermieri), che all’epoca ci portarono a sottolineare, senza mezzi termini, come davvero irrisoria fosse la quantità di operatori sanitari che non si erano sottoposti volontariamente ad alcuna dose, ovvero poco più del 2% su un totale di 1,9 milioni. Ancor meno, quindi, risultavano essere gli infermieri che decisero di non vaccinarsi.
Come sindacato, non mancammo di evidenziare come la maggior parte dei colleghi non sottoposti ad alcuna dose non poteva e non doveva essere classificata come no vax, e soprattutto non doveva essere in alcun modo discriminata, perché tanti tra questi avevano e hanno oggettive, serie e valide motivazioni, indipendenti dalla loro volontà, per non essere vaccinati. E’ noto a tutti che tra gli infermieri, la categoria di operatori sanitari tra i quali si è verificato il più alto numero di contagi, molti hanno dovuto aspettare per potersi vaccinare i tempi fisiologici del dopo Covid, e per tale ragione non possono essere assolutamente considerati no vax.
Oggi che apprendiamo dei dati degli infermieri reintegrati e precedentemente sospesi, che sono circa 2.600 (ovvero lo 0,5% degli oltre 460mila infermieri che lavorano in Italia), su iniziativa del neo-ministro della Salute, Orazio Schillaci, ci rendiamo ancor più conto che, seppur davanti a un provvedimento fondamentale alla luce della disastrosa carenza di personale (80mila unità), la posizione dei professionisti non vaccinati andava decisamente gestita in maniera diversa. Naturalmente con modalità differenti a seconda dei vari momenti di gravità dell’emergenza, ma sempre nel pieno rispetto delle persone e poi della valorizzazione delle loro competenze. Un patrimonio, insomma, che non andava in alcun modo depauperato.
Il Nursing Up si appellò con forza al buon senso delle aziende sanitarie, chiedendo loro, da subito, di non sospendere automaticamente gli infermieri non vaccinati, ma di valutare con attenzione, come la legge prevedeva, la posizione di chi, per la maggior parte, e non certo classificabile come no vax, non andava sospeso, ma reintegrato in posizioni e ruoli alternativi, così da non mettere a rischio, all’apice dell’emergenza, l’incolumità di pazienti e colleghi.
Asserimmo, senza mezzi termini, portando settimanalmente a conoscenza dell’opinione pubblica i report ufficiali relativi agli operatori sanitari, come gli infermieri italiani continuavano ad ammalarsi di Covid più di qualunque altra categoria lavorativa. Dopo un anno dall’inizio della pandemia lo scenario non era affatto mutato. E nell’ambito del comparto sanitario i nostri professionisti che si infettavano superavano ancora una volta l’80%.
I più esposti al rischio siamo sempre stati noi, molto più dei medici, molto più di qualunque altra categoria professionale del Ssn! E allora perché, oltre a pagare più degli altri lo scotto della forza del nemico, abbiamo dovuto anche pagare e paghiamo ancora alcune scelte errate delle aziende sanitarie? E naturalmente, tra gli infermieri, erano le donne quelle più colpite, proprio perché è da loro che è maggiormente rappresentato il mondo infermieristico a livello nazionale.
Erano gli inconfutabili dati dell’Inail che mettevano a nudo, ancora una volta, la posizione delicata degli infermieri italiani, quelli che ogni giorno rischiavano la vita di fronte al nemico, quelli che in questa pandemia l’hanno anche sacrificata, con le altre 80 vittime da febbraio 2020 in poi. Oggi, con il calare dell’emergenza e con l’arrivo di varianti che hanno meno incidenza sulla salute delle persone, abbassando di fatto il tasso di mortalità, di fronte al reintegro degli infermieri sospesi, non possiamo che accogliere positivamente il buon senso della politica, conscia che la voragine di personale non può consentire ancora di tenere questi colleghi a casa fino al prossimo dicembre, come era stato stabilito all’inizio.
Le aziende sanitarie, prima di procedere alla sospensione degli operatori, avrebbero dovuto organizzare e pianificare programmi operativi finalizzati a individuare le migliori modalità per compensare le attività che venivano meno e che avrebbero dovuto svolgere gli operatori sospesi. Questo non è avvenuto perché molte aziende sanitarie si sono ridotte a sospendere, facendo gravare sugli altri operatori i turni che dovevano essere garantiti dagli operatori sospesi, e quindi si torna di fatto al massacro di quei professionisti che restano regolarmente in servizio. Tutto ciò non era e non è accettabile in alcun modo. La speranza, in conclusione, è che il peso di queste scelte errate non debba continuare a mettere in discussione la serenità degli infermieri italiani.
Redazione Nurse Times
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