Se ne è parlato al primo congresso congiunto Aimo-Siso: “Indicato anche per i soggetti fragili”. Di primo piano anche il ruolo dell’imaging retinico.
“L’angiografia OCT è un’implementazione dell’OCT strutturale che dal 2014 è entrata in fase di sviluppo e ha raggiunto oggi un livello elevatissimo. Permette di osservare il flusso ematico intravasale senza l’iniezione del mezzo di contrasto, quindi è un esame semplice, ripetibile e affidabile”. A dirlo è il dottor Marco Rispoli (foto), dirigente medico oculista presso la Asl Roma 1 con incarico di Altissima Professionalità (IPC) presso il Servizio Vasculopatie corioretiniche dell’Ospedale Oftalmico di Roma e socio dell’Associazione italiana medici culisti (AIMO), in occasione di un incontro sul tema che si è svolto nell’ambito del 13esimo Congresso nazionale dell’AIMO, il primo organizzato congiuntamente con la Società italiana di scienze oftalmologiche (SISO). L’evento, che si è aperto ieri nella capitale, è in programma fino a domani, sabato 12 novembre, presso le aule del Centro Congressi Europa dell’Università Cattolica del Sacro Cuore (largo Francesco Vito, 1).
“Tale metodica ci consente di creare un’angiostratigrafia – ha proseguito il dottor Rispoli -, quindi di evidenziare i molteplici piani vascolari sia della retina sia del nervo ottico, al contrario dei comuni mezzi di contrasto che ci danno un’immagine a piano sovrapposti”. La rapidità e la semplicità di questo esame lo rendono quindi “indispensabile per lo studio delle degenerazioni maculari, ma anche delle occlusioni vascolari e della retinopatia diabetica – ha sottolineato ancora l’esperto -, permettendoci di controllare, sia a livello di follow up sia a livello diagnostico, le lesioni elementari e di definire dei nuovi biomarkers ad esempio sulle degenerazioni maculari essudative”.
Ma quali sono i vantaggi di questa tecnica nel fare diagnosi? “Senz’altro la rapidità, perché il paziente, anche con comorbidità, può sottoporsi all’esame dovendo solo dilatare la pupilla – ha spiegato il dottor Rispoli -. La tecnologia permette poi di fare un’analisi strato per strato sia della struttura sia della vascolarizzazione della regione maculare, consentendoci di trovare la lesione, nelle sue caratteristiche sul piano coronale, localizzandola anche sull’asse anteroposteriore”.
L’angiografia OCT non richiede inoltre l’assistenza anestesiologica, e per questo l’esame si può fare “ovunque e a chiunque”, in tutti i soggetti “anche fragili, che possono beneficiare di questo accertamento perché non è assolutamente invasivo”, ha aggiunto l’esperto. L’esame, ad oggi, non è arrivato ancora a sostituire “completamente” la tradizionale angiografia con il liquido di contrasto, ma “si sta affermando sempre di più: noi abbiamo pubblicato uno studio in cui si è visto come la richiesta di fluoroangiografie, rispetto a quella di angiografie OCT ha avuto un incrocio di traiettorie, quindi si sono ridotte le prime e sono aumentate le seconde, in un equilibrio raggiunto nel 2018”. Per quanto riguarda in particolare le degenerazioni maculari, ha concluso infine il dottor Rispoli, la fluoroangiografia “praticamente non viene più eseguita, se non nei casi più complicati, difficili o dubbi”, altrimenti l’esame di routine è ormai diventato l’OCT e l’angiografia OCT.
Secondo la dottoressa Daniela Bacherini, ricercatrice presso il Dipartimento di Neuroscienze, psicologia, area del farmaco e salute del bambino all’Università degli Studi di Firenze, SOD Oculistica, AOU Careggi, nel campo dell’oftalmologia il ruolo dell’imaging retinico, cioè dell’acquisizione di immagini che riproducano la retina o porzioni di essa, è “di primo piano e ha avuto una notevole evoluzione grazie alle caratteristiche anatomiche stesse del distretto esaminato”. L’esperta ha spiegato durante l’incontro: “La facile accessibilità dell’occhio umano all’esplorazione diretta, e di conseguenza all’imaging ottico, consente di esaminare direttamente le strutture retiniche mediante l’interposizione di mezzi nella maggior parte dei casi trasparenti (cornea, umor acqueo, cristallino ed umor vitreo)”. L’imaging retinico consente quindi non solo di valutare la storia naturale e il decorso di una determinata patologia, individuando la più adeguata strategia terapeutica, ma anche di “identificare potenziali biomarkers indicativi di un processo patologico anche in stadi precoci e potenzialmente utili a fini prognostici”.
La visualizzazione di dettagli strutturali della retina è “notevolmente migliorata” grazie ad una “impressionante evoluzione tecnologica” e al conseguente sviluppo di innovative tecniche di imaging. “Attualmente l’armamentario diagnostico per l’imaging corioretinico è estremamente ampio e diversificato – ha sottolineato la dottoressa Bacherini – e la presenza di multiple metodiche di acquisizione di immagini, mediante tecnologie differenti, ha dato origine all’era del ‘multimodal imaging’. In tal modo, tutte le modalità possono analizzare una specifica struttura e contribuire ad ottenere informazioni aggiuntive, la cui integrazione comporterà un aumento della sensibilità diagnostica”. La continua evoluzione tecnologica nell’ambito dell’imaging retinico ha portato alla recente introduzione nella pratica clinica di strumenti in grado di ottenere immagini a campo ultra-ampio (ultra-widefield).
Redazione Nurse Times
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