“Le sei e ventisei” canta Cremonini “ci sono notti in cui non sai dormire e più lo chiami e più Morfeo ti dice “non ce n’è””
Erano le sei e ventisei, il sole, svogliatamente, provava a tirarsi su dall’orizzonte, il telefono squilla, sarà l’ennesima addominalgia, l’ennesimo abuso alcolico, l’ennesimo catetere ostruito;
“buonasera, mia figlia sta partorendo” sarà la classica primipara che ha le contrazioni ogni venti minuti ed è stata condannata ad un travaglio di almeno dodici ore.
“Signora ma si sono rotte le acque? Le contrazioni ogni quanto sono?”
“Le acque si sono rotte, le contrazioni ogni minuto, è il secondo figlio” Sudorazione algida, mano sul mouse che in fretta cerca di aprire le IPA (istruzioni pre-arrivo) nel frattempo rassicurazioni di rito.
“L’ambulanza arriva con un medico, voi ascoltate le mie indicazioni e tutto andrà per il meglio”.
Chi mi chiama è la mamma (Giulia, nome di fantasia) della ragazza gravida, è calma, ascolta quello che le dico, lei è i miei occhi e le mie mani.
“Flavia (altro nome di fantasia della partoriente) è in ginocchio nel corridoio, stavamo venendo verso il pronto soccorso, ma sicuramente non riusciamo ad arrivare per tempo”.
“Giulia ascoltami bene, fai stendere tua figlia in un letto, su d’un tavolo, sfila le mutandine e dimmi se vedi già uscire la testolina”
Giulia segue alla lettera le mie istruzioni, io seguo alla lettera le IPA, perché dai diciamocelo, quante volte ti capita un parto in diretta? Un arresto cardiaco bene o male lo sai gestire, una valutazione del paziente, anche telefonica, la sai gestire, chiedi se respira, se il torace fa su e giù, se è cosciente, dai indicazioni a posizionare la persona per terra, gli dici di mettersi accanto, braccia dritte e via a schiacciare al ritmo.
Ma un parto? La teoria è facile, la pratica un po’ meno, l’empatia del momento, le dieci ore di notte passate pesano.
“Si vedo i capelli!”
“Incoraggia le spinte solo durante le contrazioni, e una volta uscita completamente la testa fai sospendere le spinte, e asciuga il viso del bambino con un telo pulito, mi sono spiegato bene Giulia?”
Non deve essere facile, tua figlia sta partorendo, e la prima a vedere il bimbo sei tu, nonna.
“La testa è uscita completamente”
“Bene, asciugala con un panno”
Il tempo che cerco di valutare la situazione e si sente un urlo disumano, Giulia con la voce rotta dal pianto mi dice che il bambino è uscito completamente.
Ecco adesso è il momento più delicato, il cordone ombelicale, bisogna controllare che non sia presente un giro attorno al collo, la nonna conferma, il cordone non è intorno al collo.
Sento il primo vagito del bimbo, ma sento un altro suono, è la voce del padre, fino a quel momento in modalità silenziosa.
Mentre Giulia si improvvisa ostetrica, cerco altri due occhi e due mani, dico al padre di prendere il telefono, invio il messaggio per poter avviare la videochiamata dal mio pc, è il nostro strumento, il Flagmii, che ci aiuta a tele trasportarci sul luogo dell’evento.
Ho bisogno di vedere, devo valutare tutto, il colorito, il respiro, la flessione degli arti, se davvero il cordone non gira attorno al collo.
Vedo il bimbo e a voce alta faccio una sorta di check, colorito: “non è cianotico, bene:”
Respiro: “respira, bene”
Ha pianto l’ho sentito.
“Giulia ora ascoltami bene, posiziona il bambino tra le gambe della mamma e con un telo pulisci viso e asciugalo vigorosamente sulla schiena, piange?”
“Si si piange” ha la voce rotta dall’emozione, ma non è il momento di abbassare la guardia.
“Bene portalo sul petto della mamma, non toccate il cordone, provate ad attaccarlo al seno;
Flavia (la neo mamma) stai bene? Come ti senti?”
“Sto bene, sto bene adesso”
La sua voce trasuda una gioia attenuata da uno sforzo fisico che l’ha provata davvero tanto, ma è contornata da una gioia e senso di serenità di chi ascolta per la prima volta il suono stridulo del pianto della creatura che ha vissuto nove mesi nel suo ventre.
L’ambulanza è quasi arrivata, sembra passata una vita intera ma sono soltanto otto minuti, otto minuti che mi hanno sfinito emotivamente.
“Giulia l’ambulanza è lì, apri anche la porta; Flavia come va? Come stai?”
“Sto bene, davvero”
“Benissimo, come si chiama il bimbo?”
“Francesca, si chiama Francesca. E tu, come ti chiami?”
“Io? Io (balbetto, di solito quando mi chiedono il nome è per minacciarmi, denunciarmi e via discorrendo) io mi chiamo Vito”.
“Grazie Vito” Voce emozionata e tremante
“Grazie Vito” le fa eco il marito.
Sarò anche un metro e novanta, peserò anche cento e passa chili, sarò burbero, scontroso, polemico, ma a quel “grazie” mi sono scesi due lacrimoni immensi, è stato molto provante dal punto di vista emotivo. Mi si è sciolto il cuore. Francesca stava bene, Flavia stava bene, io dopo undici ore di notte stavo bene. Ho aiutato una nonna a far nascere la sua nipotina, ho aiutato la mamma a mantenere la calma, cercando di trasmetterle sicurezza.
E’ stata la mia prima volta, i bimbi sono sempre stati il mio tallone d’Achille, ma questa volta eravamo faccia a faccia e non potevo tirarmi indietro.
Vedo il medico entrare in casa dalla videochiamata, mi assicuro che sia tutto ok, riattacco.
Sospiro.
Mi butto indietro sulla sedia.
Mi porto le mani al viso.
Ripenso, rielaboro, rifletto. Nel mio piccolo ho contribuito a far nascere una bimba, non ho ancora realizzato quello che è successo.
Riascolto la telefonata.
Sono le sei e cinquanta, arriva il cambio, raccolgo le mie robe, stimbro, sono le sette, lungo la strada per tornare a casa ripenso a quello che è successo.
Ripenso che se non avessi avuto a disposizione le istruzioni pre arrivo (IPA) non sarebbe stato così semplice gestire il parto, se non avessi avuto a disposizione la videochiamata (FLAGMII) non avrei potuto valutare la bimba. Ripenso al primo vagito, alle urla della mamma durante le contrazioni, alla voce rotta dall’emozione.
Penso e ripenso che ogni giorno vorrei pentirmi di aver scelto questo lavoro, soprattutto il ventisette di ogni mese, ma ogni giorno mi da un motivo per non pentirmi e per cercare sempre il meglio in tutto quello che faccio.
Le mie manie di perfezionismo mi hanno portato a questo, a saper gestire nel migliore dei modi una situazione potenzialmente pericolosa.
Arrivo a casa, dopo una notte così voglio solo dormire, sprofondo nel letto, ma lo sguardo è fisso sul soffitto, sto ancora rielaborando, rivedo la scena sul soffitto, la rivedrò ancora molte volte, ormai mi si è tatuata nel cervello, piano piano le palpebre iniziano a pesare, le lascio prendere il sopravvento su quel film che proiettavo sul soffitto, si fa buio.
Benvenuta Francesca❤️
Riccardi Vito
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