Preoccupazione e determinazione dalla Società Italiana di Psichiatria Forense sull’agguato mortale alla collega di Pisa per sollecitare le Istituzioni a risposte concrete.
“E’ imprecisato il numero dei soggetti considerati ‘pericolosi’ che minacciano medici, infermieri, avvocati, magistrati, insegnanti, etc., ai quali non si riesce a fornire una risposta di cura o rieducazione – precisa Enrico Zanalda, presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense –. Non sono così ‘malati’ da poter essere sottoposti a Trattamento Sanitario Obbligatorio che comunque dura una settimana e loro stessi non si ritengono ‘malati’ per sottoporsi volontariamente ad alcuna forma di trattamento. Tuttavia, non appaiono così ‘sani’ da poter essere arrestati e custoditi in carcere senza un accertamento psichiatrico”.
Quando dal dissenso si passa alla rabbia e alla violenza
“Queste persone – spiega Zanalda – attribuiscono il loro disagio interno alla società o ad alcune categorie di questa che diventano il loro persecutore. Hanno delle idee così bizzarre che difficilmente vengono considerati “sani”. Talvolta si mimetizzano in gruppi o associazioni alternative in cui ci sono correnti di pensiero come quella antipsichiatrica, terrapiattisti, cercatori di Ufo che comprendono persone rispettabili e tutt’altro che violente”.
Prosegue il presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense: “E’ un argomento delicato perché da un lato non si riescono a prevenire omicidi di sanitari come quello di Pisa, e dall’altro non si vuole impedire alle persone di manifestare il proprio dissenso o pensiero in qualunque ambito anche molto originale. Bisogna impedire però che dal dissenso si passi alla rabbia e da questa alla violenza che viene agita da quei soggetti meno dotati intellettivamente che non riescono a dominare l’impulso violento”.
Da rivedere l’attribuzione dei pazienti alle REMS
Continua Zanalda: “Bisognerebbe poter contenere e rieducare queste persone dal momento in cui diventano reiteratamente minacciose, individuando delle soluzioni restrittive che non sono né il carcere né la REMS (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza). Molti dei pazienti in REMS non hanno una malattia psichiatrica certa: si tratta di detenuti assegnati alla REMS per disturbi di personalità antisociale e dipendenza da sostanze o marginalità sociale, che non vanno confuse con le malattie mentali che possono usufruire dei percorsi residenziali nelle strutture di cura”.
E ancora: “Le REMS dovrebbero accogliere solo autori di reato giudicati, in maniera definitiva, infermi o seminfermi di mente, socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni meno restrittive. Sui 709 ospiti ricoverati nelle 31 REMS distribuite sul territorio nazionale, oltre la metà sono destinatari di misure provvisorie, analoghe alla custodia cautelare in carcere. In molti casi si tratta di detenuti non affetti da una patologia mentale conclamata che vengono ‘etichettati’ come psichiatrici e assegnati alle REMS senza avere un’indicazione clinica”.
Sempre Zanalda: “Persone che sottraggono posti a chi ne ha davvero bisogno e che dovrebbero andare in carcere o essere presi in carico da altri servizi sociosanitari rieducativi. Per queste ragioni si può ritenere non necessario aumentare i posti nelle REMS ma poter indirizzare le persone con disturbo antisociale di personalità in altre situazioni rieducative. Tra queste già esistono le ‘case di lavoro’ sottoutilizzate e sottorappresentate. Per curare bisogna prevenire ma non vi sono strumenti per poter limitare pazienti con noti comportamenti violenti prima che venga commesso un grave reato”.
Più potere al giudice tutelare
“L’accesso nelle carceri, nelle case di lavoro o nelle REMS avviene solo successivamente a un reato grave – spiega ancora zanalda -. Vi è la necessità di strutture comunitarie nuove, educative e contenitive il cui accesso prescinde dalla condanna ma potrebbe attuarsi attraverso la segnalazione al giudice tutelare da parte delle agenzie deputate alla tutela e alla cura della persona, come già avviene in molti Paesi dell’Unione Europea”.
Conclude il presidente della Società Italiana di Psichiatria Forense: “E’ necessario pertanto realizzare nuovi percorsi rieducativi, in particolare per quei soggetti con disturbo antisociale di personalità che non beneficiano di trattamenti psichiatrici tradizionali. Per loro risulterebbero utili percorsi contenitivi e di rieducazione di lunga durata a cui se non costretti non si sottopongono. Il problema della psichiatria trattamentale è un tema estremamente attuale tantochè durante il recente Convegno della Psichiatria Forense si è discusso su come individuare nuovi modelli di intervento da proporre alle Istituzioni come risposta concreta a questa nuova emergenza”.
Redazione Nurse Times
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