La decisione della Corte Suprema riporta l’America indietro di 50 anni. Manifestazioni tutto il Paese.
Nel 1970 una giovane donna americana conosciuta come Jane Roe (pseudonimo usato per tutelarne la privacy), figlia di madre alcolizzata e sposa di un uomo violento, fece causa allo Stato del Texas, per rivendicare il diritto a interrompere la sua terza gravidanza. Con il supporto, tra le altre, delle avvocatesse Sarah Weddington, Linda Coffee e Gloria Allred decise di avviare un processo davanti alla Corte distrettuale contro le leggi anti-aborto del Texas.
Il rappresentante legale dello Stato del Texas, l’avvocato Henry Menasco Wade, decise di appellarsi alla Corte Suprema. Il suo nome, assieme allo pseudonimo della querelante, ha dato poi il nome alla storica sentenza “Roe contro Wade”. Il verdetto, arrivato nel 1973, che comunque non permise alla donna di abortire, risultò alla fine favorevole a Jane Roe e,i giudici dichiararono incostituzionale la legge texana. Fu la conquista di anni di lotte e campagne sofferte a favore dei diritti delle donne.
Oggi la Corte Suprema americana, che generalmente interviene per ampliare i diritti, a maggioranza conservatrice ha annullato la sentenza “Roe vs Wade”, riportando l’America indietro di 50 anni. Solo altri tre Paesi al mondo hanno politiche più restritive dell’America sull’aborto: Polonia, Salvador e Nicaragua, che tra l’altro non riconosce alle madri nemmeno il congedo parentale.
Cosa succede adesso negli Usa? La decisione della Corte Suprema non comporta automaticamente il divieto all’aborto ovunque: la scelta è rimandata ai singoli Stati e alla loro legislazione. Sono 26 quelli che aspettavano questa sentenza per decidere in autonomia se vietare o meno l’aborto, 13 dei quali già sono in grado di dichiarare subito illegale l’aborto. In maggioranza sono Stati del Sud e del Midwest. Il Texas, ad esempio, ha organizzato misure rigidissime per vietare l’aborto, condannando severamente anche chi aiuterà le donne a interrompere la gravidanza.
Più di 40 milioni di persone vivono negli Stati dove l’aborto è vietato. Ciò significa che, se una donna che vive in quei luoghi decide di abortire, lo farà illegalmente, con tutti i rischi e conseguenze disastrose, come 50 anni fa, alimentando mercati illegali tenuti in piedi da persone a volte non specializzate. Oppure dovrà percorrere chilometri e chilometri per raggiungere Stati come la California, dove è ancora consentita l’interruzione di gravidanza.
Il malcontento del popolo è palese: manifestanti furiosi si sono radunati anche nei pressi delle abitazioni dei giudici che hanno permesso l’annullamento della sentenza. Molte grandi multinazionali, come Apple e Disney, si sono dette pronte a coprire le spese di viaggio necessarie ai loro dipendenti per andare ad abortire, se il diritto è loro negato nello Stato di residenza. E in una conferenza stampa alla Casa Bianca il presidente Joe Biden si è espresso contro la sentenza: “E’ la realizzazione di un’ideologia estrema: si torna indietro di 150 anni”.
Insomma, questa decisione rappresenta un pugno in pieno volto a tutti colore che negli anni hanno lottato faticosamente per ampliare diritti e la dignità delle donne. Gli Stati americani, come altri in questa società frenetica e mutevole, piuttosto che negare un diritto, necessitano di investite e ampliare le campagne di prevenzione, insistendo e foraggiando l’educazione sessuale, sopratutto su argomenti come le malattie sessuali, la contracezzione, l’affettività. Come sosteneva il filosofo americano Edward Abbey, “l’abolizione del diritto ad abortire per una donna, quando e se lo vuole, equivale a una maternità obbligatoria, una forma di stupro da parte dello Stato”.
Valeria Pischetola
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