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Malattie cardiovascolari: il ruolo dei PCSK9 in caso di colesterolo alto

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Malattie cardiovascolari: il ruolo dei PCSK9 in caso di colesterolo alto
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Al Congresso della European Society of Cardiology è stato presentato uno studio sul tema.

Sono ancora troppo pochi i pazienti che dopo un infarto o un ictus raggiungono i valori di colesterolo LDL raccomandati dalle linee guida internazionali. A richiamare l’attenzione su questo aspetto cruciale per la prevenzione delle malattie cardiovascolari sono i risultati di uno studio presentato al Congresso ESC (European Society of Cardiology), in attesa di pubblicazione sul Journal of Preventive Cardiology.

“Si tratta dello studio Da Vinci, un trial multicentrico europeo che ha coinvolto ospedali di 18 nazioni, inclusa l’Italia, e che ha arruolato circa 6000 pazienti, 300 dei quali italiani – spiega Stefano De Servi, dell’Ircss Multimedica di Sesto San Giovanni (Milano), capofila dei ricercatori italiani che vi hanno partecipato –. Circa metà dei pazienti arruolati erano in prevenzione primaria, i restanti erano in prevenzione secondaria e tutti erano in terapia ipolipemizzante”.

Obiettivo dello studio era valutare le modalità con cui erano trattati i pazienti e se la terapia in atto consentisse loro di raggiungere i target indicati dalle linee guida. Gli aspetti più importanti emersi dalla ricerca riguardano i pazienti ad alto rischio. “Si trattava di pazienti che avevano avuto un episodio cardiovascolare – spiega il ricercatore –: un infarto miocardico nel 22% dei casi e un ictus nel 40% circa dei casi, mentre poco meno del 40% era rappresentato da pazienti con un’arteriopatia periferica. L’età media era di 68 anni e nel 40% dei casi i pazienti erano anche diabetici. In base ai dati per il calcolo del rischio, l’82% aveva una probabilità superiore al 20% di avere un nuovo evento cardiovascolare entro dieci anni”.

Nella maggior parte dei casi i pazienti erano in terapia con statine, anche se solo il 37% con statine ad alta intensità, nel 9% dei casi la statina era associata a ezetimibe e una minima percentuale di pazienti, l’1%, assumeva un inibitore del PCSK9. Sconfortanti i risultati relativi alle percentuali di pazienti a target. “Solo il 39% dei pazienti in prevenzione secondaria ha raggiunto il target delle linee guida del 2016, vale a dire 70 mg/dl – sottolinea De Servi –. Se poi consideriamo le nuove indicazioni del 2019, solo il 18% ha raggiunto un valore inferiore ai 55 mg/dl. I pazienti in terapia con PCSK9 hanno raggiunto i target con maggior frequenza, arrivando al target delle Linee Guida del 2016 nel 67% dei casi e al target 2019 nel 58%, rispetto ai pazienti in terapia con statine più ezetimibe che si sono fermati al 54% rispetto al target di 70 mg/dl e solo al 20% nel caso del target 55 mg/dl”.

Cosa fare per migliorare questi numeri? “I pazienti – suggerisce l’esperto – dovrebbero avere un rapporto più costante con gli specialisti. Una relazione con il medico che si mantiene nel tempo aiuterebbe i pazienti a comprendere meglio come la continuità terapeutica sia il primo passo per raggiungere i corretti livelli di colesterolo e di conseguenza ridurre il rischio di ricadute in termini di infarti, ictus o altri eventi cardiovascolari. Se una possibilità di miglioramento è rappresentata da un maggior utilizzo di ezetimibe, vale la pena ricordare che gli inibitori del PCSK9 dovrebbero avere un più ampio impiego”.

Al congresso Europeo di Cardiologia, e precisamente dalla presentazione dello studio Heymans, arriva un’ulteriore conferma sulle possibilità offerte dagli inibitori del PCSK9 di raggiungere corretti livelli di colesterolo e conseguentemente ridurre il rischio di nuovi episodi cardiovascolari acuti. “Si tratta di uno studio osservazionale attualmente in corso in undici Paesi europei, inclusa l’Italia, che ha l’obiettivo di verificare le differenze fra le raccomandazioni delle linee guida e quello che succede nel mondo reale con uno dei nuovi farmaci per il controllo del colesterolo, l’inibitore del PCSK9 evolocumab – spiega uno dei componenti del comitato dello studio, Pasquale Perrone Filardi, ordinario di Cardiologia all’Università Federico II di Napoli e presidente eletto della Società Italiana di Cardiologia -. L’arruolamento di oltre 1.800 pazienti e il loro monitoraggio per 16 mesi rende questo studio il più ampio finora disponibile sull’impiego di questa terapia”.

Un aspetto da sottolineare è la caratteristica dei pazienti reclutati e i livelli di colesterolo LDL al momento dell’ingresso nello studio. “Sono pazienti a rischio molto alto, che in oltre l’85% dei casi avevano subìto un evento cardiovascolare e che entravano con un colesterolo LDL medio di 150 mg/dl, valore molto alto relativamente al loro profilo di rischio – puntualizza l’esperto –. La terapia con evolocumab ha consentito di ridurre il colesterolo LDL di circa il 60%, un dato importante che conferma come anche nella reale pratica clinica questi farmaci siano oggi i più potenti nella riduzione del colesterolo LDL, con un effetto che si mantiene inalterato nel tempo, come abbiamo imparato anche dei trial clinici”.

Un secondo aspetto interessante relativo alla popolazione coinvolta nella ricerca è rappresentato dal fatto che oltre la metà dei soggetti arruolati nello studio erano intolleranti alle statine. Conferma Perrone Filardi: “Il 40% dei pazienti è stato trattato in monoterapia con evolocumab. Anche in monoterapia il farmaco ha portato il 60% circa dei pazienti al target delle Linee Guida del 2019 di 55 mg/dl di colesterolo LDL”.

L’efficacia della terapia nei pazienti in prevenzione secondaria è fondamentale non solo per mantenere i livelli LDL nei parametri indicati, ma, soprattutto, per abbattere il rischio di eventi cardiovascolari futuri. “Il rischio a dieci anni dei pazienti dello studio, che sono a rischio molto alto e con livelli elevati di colesterolo pari a LDL, 150 mg/dl, sarà maggiore di quella, per esempio, di uno studio di registrazione come lo studio FOURIER dove i pazienti entravano con livelli di colesterolo LDL di 90 mg/dl – afferma il ricercatore –. Questo significa che la riduzione del 60%, vale a dire di circa 90 mg/dl, comporta una riduzione del rischio importante, sia in termini relativi, sia in termini assoluti. Si può addirittura stimare una riduzione a dieci anni del rischio assoluto fra il 12 e il 14%”.

Redazione Nurse Times

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