La Fnopi punta a valorizzare, in particolare, quello di famiglia e comunità.
Questo è l’Anno internazionale dell’infermiere. L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha ufficialmente dedicato il 2020 a questa professione, chiedendo più investimenti, più occupazione, più centralità, più supporto a livello globale. E in Italia è stato raccolto al volo l’appello. Il nuovo Patto per la Salute, infatti, si propone di mettere al centro proprio l’infermiere e di integrarlo con il resto del Sistema sanitario. Non solo, fa un altro passo avanti: indica non un infermiere qualsiasi, ma quello di famiglia e di comunità.
«Una svolta epocale – commenta Barbara Mangiacavalli, presidente Fnopi –. Il tema dell’assistenza ai cittadini sul territorio è in discussione da molto tempo, ma oggi, finalmente, abbiamo avuto il coraggio di creare l’anello mancante».
Secondo il decalogo delle attività stilato dalla Fnopi, l’infermiere di famiglia e di comunità, prestando servizio in ambulatorio e a domicilio, avrebbe l’importante compito di fare prevenzione nella collettività, educarla e informarla su stili di vita e pratiche sanitarie, dare assistenza personalizzata alla famiglia e ai pazienti cronici. I numeri sono importanti. Per rispondere ai bisogni di salute degli oltre 24 milioni di cittadini con patologie croniche o non autosufficienti ci sarebbe bisogno di oltre 30mila infermieri. Di questi, circa 20mila dovrebbero essere infermieri di famiglia. Questo calcolando un infermiere di comunità ogni 3mila cittadini circa.
«Un ruolo fondamentale – continua Mangiacavalli –, su cui c’è una particolare sensibilità istituzionale. Fino a poco tempo fa l’infermiere di famiglia era riservato solo a un numero ristretto di Regioni, aperte e sensibili al tema. Ora, grazie al Patto della Salute appena siglato, contiamo ci sia un impulso su tutto il territorio e che finalmente questo ruolo diventi realtà. Questo tipo di infermiere potrebbe intervenire non solo a domicilio, ma anche nell’offerta di assistenza territoriale, nelle case della salute, negli ospedali di comunità, nei distretti, dove potrebbe gestire direttamente persone con problemi di fragilità, in collaborazione con i medici di medicina generale».
E per la formazione? Le competenze potrebbero essere assunte con un preciso percorso universitario, oggi attivo in nove atenei italiani che hanno già portato alla formazione di circa 6mila professionisti specializzati. E nella categoria c’è Matteo D’Ambrosio, giovanissimo infermiere di 26 anni, da due in ruolo presso l’Unità operativa di Neurologia e Stroke Unit dell’Arcispedale Sant’Anna di Ferrara, con una storia di amore e passione per questa professione: «Mio padre è infermiere, lavorava in pronto soccorso. Fin da piccolo lo seguivo in ospedale, e del suo lavoro mi colpiva la relazione con le persone in difficoltà: lui le ascoltava, non si trattava solo di una questione tecnica o burocratica. Da lì è nato il desiderio di essere di supporto».
Matteo comincia il percorso di studi a Salerno, dove poi è diventato tutor dei ragazzi che oggi seguono il tirocinio, prosegue alla Vanvitelli di Napoli fino a gennaio 2018, quando arriva il fatidico telegramma dall’Azienda Ospedaliera di Ferrara: «Il mio sogno si stava realizzando. La gioia ha prevalso sulla paura di trasferirmi e lasciare tutto. Non cambierei quella di infermiere con nessun’altraal mondo, perché ti permettere di assistere le persone».
Prospettive future? «Sono un infermiere a tutto tondo. Mi occupo dell’assistenza dei pazienti e dei loro bisogni, sono importante nel processo organizzativ organizzativo dell’assistenza. Vorrei continuare questo percorso e mi piacerebbe in futuro insegnare all’università. Per noi l’infermiere di famiglia è un grandissimo stimolo di miglioramento, perché rappresenta ciò che mancava nell’assistenza territoriale al al paziente. Sempre a una condizione, però: mai smettere di studiare, per non farsi trovare impreparati alle sfide sanitarie del futuro».
Redazione Nurse Times
Fonte: Corriere della Sera
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