È l’obiettivo dei ricercatori di Tel Aviv, che però solleva non pochi dubbi di natura etica.
Un utero artificiale, costruito in laboratorio strato su strato e provvisto di vasi sanguigni. Non è fantascienza, ma l’obiettivo dei ricercatori dell’ospedale Ichilov e dell’Università di Tel Aviv. Lo studio è già avviato, come hanno spiegato i professori Dan Grisaru e David Elad in un’intervista al quotidiano Yediot Ahronot: «Abbiamo deciso di provare a far crescere un arto da zero e abbiamo visto che il tessuto reagiva proprio come farebbe in natura».
Ma invece di una gamba, gli scienziati hanno copiato la struttura esterna e le attività di un utero, costituito da strati diversi di cellule e in grado di reagire agli ormoni e alle pressioni esterne. Allo stesso tempo i ricercatori hanno cominciato a studiare i vasi sanguigni per garantire al tessuto l’ossigeno e gli altri elementi di nutrizione per proteggere l’eventuale embrione nella fase di sviluppo. Grisaru ha annunciato che il prossimo anno tenteranno di «stampare in laboratorio il modello di un utero tridimensionale e di impiantarvi cellule simili a quelle di un feto per verificarne il possibile sviluppo».
Una serie di dubbi etici emerge però sulle possibilità di questi studi. «L’utero artificiale significherebbe una speranza per le donne prive di utero, per ragioni congenite o a seguito di una malattia – osserva il professor Antonio Lanzone, ordinario di Ginecologia dell’Università Cattolica di Roma –. Sul piano teorico, un’applicazione potrebbe riguardare i casi di grave disfunzione placentale prima delle 23 settimane di vita del feto per far continuare lo sviluppo».
Chiaro è inoltre che il rapporto di filiazione, quella relazione strettissima in grembo, non ci sarebbe. «Oggi sappiamo cosa avviene in utero: il dialogo fra la madre e il feto nei nove mesi di gravidanza è importante per l’esistenza del nascituro», ricorda Cleonice Battista, ginecologa del Policlinico Università Campus Bio-Medico di Roma, che riguardo alla ricerca israeliana dice: «L’interrogativo che ci dovremmo porre è se vale la pena fare tutto ciò. Ogni volta che ci allontaniamo dall’esperienza umana non sappiamo in che modo la biologia evolverà. Può sembrare affascinante, ma va ricordato che quel figlio non avrà il contatto con i genitori durante i nove mesi».
Redazione Nurse Times
Fonte: Avvenire
Lascia un commento