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Il coronavirus e l’esercito di terracotta.

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Il Coronavirus e l'esercito di terracotta.
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Di seguito le riflessioni del nostro collaboratore Massimo Arundine sulle disposizioni impartite dall’Asl Salerno in merito ai dispositivi di protezione individuale.

Così, quello che si credeva immutabile si è trasformato, improvvisamente. Ha cessato di essere come era sempre stato e come eravamo certi sarebbe rimasto fino alla fine dei giorni. Alla fine del tempo.

Parlare adesso di fine dei giorni ha un sapore amaro: la consapevolezza che la mia vita o quella delle persone a me vicine possa avere un epilogo drammatico prima della prossima estate, con le ferie estive già prenotate, ha un impatto forte sui miei pensieri e sul mio umore. Pensieri che girano nella mente in percorsi mai esplorati e realizzano costruzioni di idee e convinzioni mai così alte, mai così fragili: un banale starnuto, un lieve colpo di tosse fa crollare tutto. La paura è nemica dei pensieri nobili. Sono cambiato più di quanto abbia fatto la mia città, e il traffico che prima osservavo, maledicendolo dal mio balcone, mi manca quanto quell’amico d’infanzia col quale litigavo spesso e andato via troppo presto.

Così, in questa sorta di quarantena globale mi sporgo a nuovi balconi, guardo il mondo da finestre tecnologiche: osservo grafici, confronto numeri, cerco il sollievo che la mia anima auspica non nella solita letteratura o nelle poesie. ma nella statistica. Provo a riscaldarmi con un iceberg  (i grafici, a guardarli, ricordano la forma di un iceberg), auspicando sia composto da lava incandescente e non da ghiaccio. Così, ogni giorno, alle 18 lascio tutto e mi piazzo di fronte al televisore, con carta e penna. Sperando ogni giorno che lo tsunami rallenti. Finora non è stato così. Ne sono sicuro: andrà meglio stasera.

Sono un infermiere e, per formazione professionale, combatto e odio la malattia e la morte. La mia professione, mai come adesso, è al centro dell’attenzione, “nell’occhio del ciclone”: agli infermieri viene chiesto di sfidare il virus; si chiedono responsabilità e senso del dovere; si fa leva sugli interruttori nobili e altruisti che ogni infermiere mostra in bella evidenza, facili da attivare. E gli infermieri rispondono, si fanno trovare in prima linea e affrontano questa guerra con un nemico microscopico ma letale. Sanno che molti colleghi si sono ammalati, conoscono i nomi di chi, tra loro, ha pagato con la vita questa battaglia professionale. Però indossano l’armatura e vanno: è il loro lavoro!

Già, l’armatura. Nel medioevo serviva a proteggere dalle “armi bianche”, quelle con la punta e la lama, che sarebbero altrimenti penetrate facilmente nella carne. Adesso si chiamano DPI, dispositivi di protezione individuale e, seppur molto simili nella forma, sono molto diversi nella consistenza dalle armature medioevali. Ce lo hanno insegnato: perché il virus non ci colpisca, c’è bisogno di un vestiario adeguato, che non lasci spazio all’ingresso del virus.

Ed ecco allora che arrivano le disposizioni della mia Azienda, che afferma  di rifarsi alle indicazioni dell’Istituto Superiore di Sanità, ma incredibilmente leggo che, per entrare nella stanza di degenza di un Covid-19 positivo, posso indossare la sola mascherina chirurgica. Per reperire accessi venosi, rilevare la pressione arteriosa e per tutte le altre attività che dovessero rendersi utili basta la mascherina chirurgica, e solo sul mio viso di operatore: il paziente può non indossarla se ha fastidio. Conoscete qualcuno che, con dispnea, sopporta agevolmente la mascherina? E se il paziente dovesse starnutire o avere un colpo di tosse che non riesce a trattenere quando il mio viso è a poca distanza dal suo?

Mi innervosisco: non vedo il razionale scientifico nel documento che la mia azienda ha emanato. Già quando si è deciso, pur in presenza di contatto diretto, di non eseguire tamponi né costringere in quarantena il personale infermieristico che non avesse sintomatologia mi era sembrato che si stesse rasentando l’irrazionalità. Questa nuova disposizione ha il sapore di beffa, come se un soldato fosse mandato in guerra con i fucili giocattolo e qualcuno lo rassicurasse sulla loro efficacia: fanno scena, non sostanza. Mi ricorda la guerra del Golfo, con l’esercito di cartone messo lì per spaventare il nemico.

Però saper trovare le informazioni giuste, nell’era dell’informatica, è un attimo. Ricordo di aver letto qualcosa di autorevole, pubblicato proprio sul sito dell’ISS, cui la mia azienda afferma di ispirarsi. Lì sapranno indicarmi le giuste protezioni. Cerco e trovo quasi subito. Sì, era l’articolo che avevo letto qualche settimana fa: afferma che le mascherine chirurgiche non sono sufficienti ad assistere un Covid-19 positivo. Basta leggerlo.

Su quest’ultimo documento, però, alla fine leggo, prima dei ringraziamenti, a pagina 5, testualmente: “Qualora i respiratori FFP non fossero disponibili, è raccomandato l’utilizzo di una mascherina chirurgica o procedurale. Quando si utilizza questo tipo di DPI, le limitazioni e i rischi connessi al suo utilizzo dovrebbero essere valutati caso per caso”. Inizio a capire. Ci stanno mandando al fronte coi fucili giocattolo di plastica, perché di quelli veri non se ne trovano.

Mi accorgo che l’Iss ha pubblicato un altro documento. Lo leggo: le indicazioni sono le stesse che ha emanato la mia azienda. Frustrazione. Sconforto. Rassegnazione. Mi affaccio al balcone per far sbollire la rabbia. Le poche persone che passeggiano hanno sul volto una mascherina: pochi la mascherina chirurgica. Non riesco a decifrare il grado di protezione, ma immagino siano tutte FFP1, FFP2 o FFP3. Per andare a comprare le mele o le sigarette.

Oggi imbracciamo il nostro fucile di cartone e andiamo a combattere la guerra che ormai è inevitabile, ma domani, quando nel cielo attualmente sereno torneranno le nubi di smog, qualcuno dovrà rispondere di queste scelte. Di queste vite spezzate.

Massimo Arundine

ALLEGATO 1: Indicazioni dell’Asl Salerno sull’utilizzo razionale dei DPI
ALLEGATO2: Estratto indicazioni Iss sui DPI

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