Intervistato dall’agenzia Dire a distanza di 24 anni, il dottor Alessandro Frigiola, che all’epoca dirigeva l’equipe di Cardiochirurgia pediatrica dell’ospedale di San Donato Milanese, ricorda quei giorni e spiega: “La scienza e la ricerca vanno stimolate a trovare tecniche alternative”.
Operare senza l’uso del sangue è possibile? Nel dibattito sul tema, molto caro ai testimoni di Geova e ai fedeli delle altre confessioni religiose che non vogliono sottoporsi a trasfusioni di sangue, si può ricordare quello che successe esattamente 24 anni fa, il 19 settembre del 1998, a un bimbo di appena un anno di vita. Quel giorno Andrea, nome di fantasia, fu operato a cuore aperto per curare una malformazione cardiaca e l’intervento fu eseguito senza l’utilizzo del sangue. L’operazione chirurgica, unica nel suo genere, si svolse all’ospedale di San Donato Milanese. Un intervento tutto sommato di routine per l’equipe di Cardiochirurgia pediatrica del nosocomio, diretta dal dottor Alessandro Frigiola, se non fosse che i genitori del bimbo sono testimoni di Geova e chiedono che l’intervento sia eseguito senza ricorrere a trasfusioni di sangue.
“In quegli anni – spiega Frigiola- eravamo il primo centro d’Italia per il trattamento delle cardiopatie e rappresentavamo un punto di riferimento per i testimoni di Geova. Abbiamo avuto sempre particolare attenzione agli interventi su questi pazienti. Come medico, infatti, devo prendere in considerazione il paziente e cercare di salvargli la vita ma, allo stesso tempo, cerco di rispettare il regolamento e i comandamenti o la filosofia di una qualunque religione o dottrina. Personalmente ho sempre spinto per cercare di aiutare i testimoni di Geova”.
Il dottor Frigiola, dunque, acconsente ed escogita un espediente mai usato prima per venire incontro alle richieste della mamma e del papà del bambino. L’intervento dura circa tre ore e si conclude nel migliore dei modi: Andrea è salvo, oggi è un giovane di 25 anni e gode di ottima salute. Questa è la storia del dottor Frigiola, l’uomo che 24 anni fa ha dato una seconda vita ad Andrea. A raccontarla all’agenzia Dire è lo stesso direttore dell’Area chirurgica cuore-bambino all’Irccs Policlinico San Donato di Milano, all’epoca dell’operazione 55enne. Oggi, di anni, ne ha 79 e ricorda perfettamente cosa accadde quel giorno e le ore che precedettero l’eccezionale intervento.
“Dovevamo capire – ricorda – come poter diluire il meno possibile il sistema, la cosiddetta ‘circolazione extracorporea’, indispensabile per fare l’intervento ai pazienti che devono essere operati a cuore aperto. Fino ad allora onestamente non avevamo alternative se non quella di essere il più accurati possibile, tentando di ridurre al minimo la perdita di sangue dal cuore, che è il serbatoio del sangue. Al termine di una riunione con gli anestesisti e i tecnici della macchina cuore-polmoni pensammo a come poter ridurre al massimo la lunghezza del circuito che deve essere riempito di acqua, non di sangue. Questo, però, fa sì che il sangue del bambino si diluisca e non funzioni più e, di conseguenza, si corre il rischio che fegato, reni e polmoni possano andare incontro a edema e non funzionino, rendendo pericolosissimo il post operatorio”.
L’unica alternativa era quella di accorciare i tubi: più corti sono, meno acqua è necessario utilizzare. Già, ma come fare? La macchina è appoggiata al pavimento e pesa tre quintali, mentre il tavolo operatorio è alto e i circuiti sono lunghi circa due metri. Enrico Mattei diceva che “l’ingegno è vedere possibilità dove gli altri non ne vedono”.
“Siamo riusciti a utilizzare un tavolo operatorio speciale – spiega ancora Frigiola –, che poteva essere abbassato di molto e che ci ha consentito di accorciare i tubi. Non solo. Ci è venuta l’idea di mettere dei cuscini a terra e operare in ginocchio. Così facendo, eravamo più bassi e più vicini alla pompa e siamo riusciti a ridurre la quantità d’acqua necessaria a riempire il circuito”. L’intervento riesce perfettamente. Il bimbo ha sanguinato pochissimo.
“Anche se eravamo al limite dell’ematocrito, ovvero la concentrazione del sangue, il piccolo ce l’ha fatta, e grazie a questo espediente abbiamo ottenuto un risultato fantastico”, prosegue Frigiola. Solo il post-intervento è stato un po’ più lungo del normale: “Per qualche giorno il bambino ha avuto l’ematocrito al limite e gli scambi di ossigeno sono stati un po’ più difficili. Siamo rimasti sempre al limite fino a quando, un po’ alla volta, la milza ha prodotto i globuli rossi e il paziente ha recuperato. Era un po’ più debole, ma alla fine, una volta superate le prime settimane, tutto è rientrato e si è risolto al meglio”.
Nel corso di questi 24 anni i due protagonisti della storia non si sono più incontrati, “ma mi hanno detto che il ragazzo sta bene”, assicura Frigiola, secondo il quale “non bisogna mai dire ‘no’ in partenza o dare subito una risposta negativa, perchè a volte situazioni che sembrano improponibili o irrisolvibili hanno invece una soluzione”.
Oggi il cardiochirurgo continua a operare quotidianamente e a scrivere nuove storie di interventi salvavita. Dal 1993 è inoltre presidente dell’Associazione Bambini Cardiopatici nel Mondo. “In questi 29 anni di attività dell’Associazione – tiene a informare – abbiamo realizzato circa 450 missioni operatorie in 27 Paesi di tutto il mondo, operando più di 3.500 pazienti, oltre alla costruzione di ospedali e alla formazione di medici e operatori locali. Ho creato questa Associazione proprio per aiutare i bambini con cardiopatia congenita e per garantire cure mediche cardiochirurgiche di qualità ai piccoli malati di cuore, ovunque essi vivano”.
Il dottor Frigiola sottolinea, inoltre, la difficoltà di trovare sangue nei Paesi del terzo mondo: “Se non ci fossero state strategie alternative alle emotrasfusioni, migliaia di bambini non avrebbero potuto essere operati e probabilmente sarebbero morti. Sicuramente lo stimolo a cercare soluzioni al di fuori della trasfusione è venuto proprio dal fatto di lavorare con i testimoni di Geova, che hanno avuto e hanno tuttora un ruolo nello stimolare la scienza e la ricerca a trovare tecniche alternative, che riducano i rischi della trasfusione. Senza uno stimolo continuo in questo senso, probabilmente avremmo ridotto il progresso e saremmo ancora un po’ indietro”.
Redazione Nurse Times
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