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Coronavirus, l’esperienza di un giovane infermere: “Contento di non essere crollato”

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Migliaia di operai e impiegati rischiano il posto dopo il lockdown. Il Governo belga propone di riconvertirli in infermieri 1
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Riceviamo e pubblichiamo il contributo del collega Mario Marino.

Mario Marino

Salve, era da tempo che volevo condividere con voi la mia esperienza di questo periodo in cui un maledetto virus ha cercato di strappare una nazione come la nostra.

Laurea a novembre in Infermieristica, il mio sogno, la mia più grande passione. Da lì tutta l’ansia e la paura nel trovare lavoro, per le prime responsabilità da vero e proprio e infermiere. Altro che tirocinante! Si comincia a entrare nell’ottica di schede di terapia da firmare, consegne, occhio clinico per il paziente, terapia, accessi venosi. Tutto da solo, perché l’infermiere tutor che ti ha accompagnato nei tre anni non esiste più. Ora esistete tu e il paziente.

Arriva gennaio, il mese in cui comincio a mandare curriculum a raffica, di qua e di là per le strade di Roma per i vari colloqui in alcune cliniche. Dopo vari tentativi, trovo finalmente lavoro. Firmo il contratto, e per me è stato un giorno emozionante, bellissimo, non stavo più nella pelle. Finalmente indossavo la divisa non più con la scritta “Tirocinante”, ma quella “INFERMIERE”. Mi sentivo grande, cresciuto. Non avevo messo in conto che, un mese dopo, quella divisa sarebbe stata coperta da tute bianche, dento le quali c’è tanta sofferenza, forse un po’ troppa per contenerla.

Primo caso di Covid in clinica. Da lì iniziano tamponi, trasformazioni, lacrime, pianti. Bloccati per giorni in clinica fino all’arrivo dei tamponi, perché non si poteva andare via fino all’arrivo dei risultati. A soli 24 anni e dopo un esperienza di tirocinio clinico, mi ritrovo travolto da un clima lavorativo che forse neanche a sognarlo. Si lavora duramente, con pochi riposi, e si arriva a conoscere una parola grande: “morte”.

Vedere i propri pazienti morire così, da un giorno all’altro… Lì cominci a entrare nell’ottica di quale sia veramente la nostra professione. Per me non esisteva nient’altro, solo i pazienti. Tutto girava intorno a loro, come sempre, ma nel periodo Covid in un modo diverso, diciamo. A volte mi sentivo potente, forte, ma ci sono stati momenti di crollo, di paura, di ansia. A volte pensavo: “Ma a 24 anni è possibile che devo vivere tutto questo?”. E mi rispondevo che alla fine era quello che avevo scelto, era la mia professione, punto e basta.

Ho imparato a gestire emergenze e a gestire una corsia da solo. Ho capito che la vita è una e va vissuta al meglio, senza rimpianti, senza pensare al domani, ma solo al presente, perché tutto può cambiare all’improvviso. E’ stato tutto straziante, doloroso, ma alla fine sono contento di avercela fatta e di non essere crollato, di aver mantenuto la mia costanza nel lavoro, che è e resterà il più bello.

Mario Marino

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