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Coronavirus, le infermiere di Codogno si raccontano: “Noi unico ponte tra malati e famiglie”

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Coronavirus, le infermiere di Codogno si raccontano: "Noi unico ponte tra malati e famiglie"
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Intervistate da AdnKronos, hanno parlato del drammatico periodo vissuto nella prima zona rossa d’Italia.

Hanno sperimentato per prime in Italia cosa voglia dire isolamento e tampone positivo al coronavirus, quando l’unico ad aver avuto quell’esito – una manciata di ore prima – era il paziente 1, Mattia, ormai intubato. Sono le infermiere di quello che era il reparto di Chirurgia e che oggi è l’area arancione Covid di Codogno, prima zona rossa d’Italia.

Barbara Cappellini racconta ad AdnKronos del suo primo impatto col virus, che sembrava così lontano. In isolamento insieme a due colleghe già dal 21 febbraio 2020, per un contatto avuto con Mattia, il 23 febbraio riceve il verdetto: positiva anche lei. Mariagrazia Frosi cita invece le lunghe giornate bardate, che “continuano ancora oggi”. E’ passato più di un anno e ora, dice con la oss Sara e le colleghe, “vediamo la luce in fondo al tunnel avvicinarsi: dovremmo essere uno dei prossimi reparti a tornare alla normalità”.

Per i pazienti costretti a settimane di separazione dai propri cari sono state sorrisi, pensieri gentili, un filo sottile che univa le famiglie. E si raccontano in occasione della Giornata internazionale dell’infermiere. Con Frosi e Cappellini ci sono anche Meri De Matteis e l’operatrice sociosanitaria Sara Gianbruno. Sono di turno in reparto oggi e riavvolgono il nastro. “E’ stato difficile – dicono –. Ci siamo trovate da un giorno all’altro a diventare un reparto Covid ed è stato drammatico all’inizio. Non avendola mai vissuta, non conoscevamo il vero significato della parola pandemia”.

“Ci siamo adattate – spiega Frosi –. Abbiamo provato ansia e un po’ di spavento, non sapevamo cosa stavamo affrontando, eravamo davvero tutti impreparati. Ma ora siamo qui. Abbiamo vissuto l’esperienza positiva di aver visto pazienti arrivare in condizioni disperate e tornare a casa con le loro gambe”. In un periodo in cui entrare in ospedale ha significato perdere il legame col mondo esterno, “siamo state l’unico contatto con i familiari. Loro chiamavano noi, siamo state un ponte”.

“Quando un’amica ci ha regalato un iPad – raccontano – è stata la svolta: ci siamo organizzate per fare videochiamate. Ci pensavamo a turno. E per i pazienti è stata una gioia indescrivibile”. Mariagrazia ripensa a una signora anziana che stava davvero molto male: “L’abbiamo coccolata come fosse nostra madre e al momento delle dimissioni non voleva tornare più a casa. Ce li siamo presi a cuore i pazienti. Portavamo cioccolatini. Anche un semplice caffè per loro sembrava un regalo immenso come l’oro”. La solitudine forzata da Covid pesa: “E il senso della nostra professione è anche questo. Significa dare una mano al paziente anche a livello emotivo”.

“E’ una medicina anche questa – osserva Barbara –. Se ti fermi cinque minuti e scambi una parola. Nella prima fase di lockdown abbiamo avuto tante donazioni, ci hanno riempito di omaggi: cioccolato, colombe, un vino arrivato dal Piemonte. Queste cose le abbiamo apprezzate e condivise coi pazienti. Ai nostri diabetici abbiamo mandato la glicemia alle stelle”. Scherza Barbara: un modo per spiegare il bisogno di calore umano in circostanze così difficili. “Non vedere nessuno per giorni non è facile – aggiunge –. Speriamo che, spenti i riflettori della pandemia, non si dimentichi questo impegno”.

“Un impegno corale – sottolinea Barbara –. Non esiste l’infermiere senza Oss, senza ausiliari, senza il medico e il fisioterapista. Senza tutte queste figure insieme, non ce l’avremmo fatta e va detto. Va ricordata anche la signora delle pulizie che fa tanto e non viene riconosciuta. Nessuno ha detto quanto è stato importante il suo lavoro, cosa ha rischiato entrando a contatto con materiale Covid”.

Il rischio lo hanno corso tutti, anche gli infermieri e i sanitari e hanno fatto i conti con i loro lutti. “Ci sono stati momenti difficili. Abbiamo fatto di tutto. Persino portare l’acqua santa di Lourdes in reparto quando il prete non poteva più entrare”, ricorda Barbara – “C’è stato un periodo in cui facevamo fatica anche a dar da bere ai pazienti perché i numeri del personale erano tirati e i malati tanti – aggiunge Mariagrazia –. Questo ci ha disturbato, non avere tempo per dare le giuste attenzioni. Abbiamo avuto aiuto da fuori, anche i militari sono venuti in supporto. E questa esperienza ha mostrato quanto è importante che non ci siano più tagli”.

“Abbiamo comunque tentato di mantenere il sorriso”, osserva Barbara, ricordando per esempio quando, durante il suo isolamento in ospedale, insieme alla collega ha chiamato l’amico che lavora in trattoria per ordinare qualcosa: “E lui ha detto: faccio panini per tutti voi che siete in ospedale. E’ stato un bel gesto. Ci siamo messe a fare telefonate per prendere le ordinazioni reparto per reparto, volevamo dare un supporto anche da isolate a chi doveva lavorare per due”. A Barbara e alle colleghe sono state necessarie tre-quattro settimane per mettersi alle spalle il Covid: “Abbiamo fatto la nostra pandemia. Poi è arrivato il traguardo del vaccino. E ora diciamo a tutti: fatelo anche voi, quando vi toccherà, e abbiate fiducia”.

Redazione Nurse Times

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