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Coronavirus, il pensiero di un’infermiera: “Sto dalla parte dei malati psichiatrici”.

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Coronavirus, il pensiero di un'infermiera: "Sto dalla parte dei malati psichiatrici".
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo la seguente nota di una collega veneta.

Ciao, mi chiamo Martina e sono un’infermiera veneta che lavora in una clinica psichiatrica. Siamo al giorno X di quarantena (non so a che giorno siamo, e sinceramente neanche voglio esserne cosciente poiché il pensiero di contare i giorni mi rende alquanto instabile). Vi scrivo semplicemente per esprimere un pensiero riguardo a ciò che ho capito nel corso della mia vita e della mia esperienza di tirocinio e lavoro.

Premetto che sono molto legata alla sfera psichica e relazionale di ognuno di noi. Come ogni altro essere umano dotato di un cervello abile, sono in grado di generare giudizi e pareri riguardo alle persone e all’ambiente che circonda ognuno. D’altra parte, però, mi sono imposta, in ambito relazionale, di astenermi quanto più possibile da questa capacità a me concessa. Il mio obiettivo nel contattarvi e scrivervi non è quello di parlare di politica e di manovre più o meno giuste che lo Stato impone, ma solo di esprimere un pensiero scaturito dal colloquio con una paziente che ho in carico nel posto in cui lavoro.

L’altra sera, appena montato il turno di notte, mi accingo ad andare a salutarla e, con umiltà e terrore negli occhi, mi ha chiesto se potevo abbracciarla. E sì, l’ho fatto. Nonostante fosse stata appena ri-ricoverata dopo 14 giorni trascorsi a casa. Mi sono intenerita alle sue parole, quando mi ha detto: “Con queste mascherine e con la distanza a cui ci tenete vi sento sempre così lontani. Non è più il rapporto di prima: siete distanti, distaccati e freddi”. Sono felice che il mio abbraccio l’abbia fatta sentire meglio, l’abbia fatta sentire apprezzata e l’abbia rassicurata.

Questo per dire che io mi schiero con tutta la mia volontà dalla parte dei malati psichiatrici, che talvolta insegnano più dei libri su cui per tre lunghi anni studiamo. Perché l’amore non si insegna sui libri, è necessario impararlo empiricamente e con grande dedizione. Io sono solo dispiaciuta perché stiamo passando da un mondo in cui le persone sono già distaccate e hanno ritmi di vita frenetici, in cui non c’è spazio per le manifestazioni d’amore e d’affetto, a un mondo dove tutto ciò si amplificherà. Dove avremo paura del prossimo, dei baci e degli abbracci e di tutte le manifestazioni d’amore e d’affetto che si possono dare o ricevere.

Ed io, oggi, mi sento un’appestata. Mi sento in balia di un sistema che non ci dà alcuna garanzia rispetto a questo tema, che non coglie il problema della mole di pazienti psichiatrici che si ritroverà a dover curare una volta, se finita, questa ondata di malinconia e paura. Non si rende conto di che danno sociale, psichico, relazionale, affettivo sta creando. E odio pensarlo. Odio pensare che non posso vedere e godermi almeno il mio fidanzato, che abita a 5 chilometri da casa mia, che poi è la mia roccia, il mio punto fermo, il mio equilibrio.

Siamo in un periodo in cui nessuno riceve e nessuno dà. Ne stiamo soffrendo tutti, chi più chi meno. Ma una cosa la so: tutti hanno bisogno di piccoli gesti, tutti hanno bisogno dell’amore. Non l’amore trasmesso attraverso futili parole in un messaggio di WhatsApp, ma l’amore tattile, vissuto. Non l’amore attraverso gli smartphone e le videochiamate, perché ci abitueremo a essere organismi autosufficienti che non necessitano degli altri, quando in realtà dovremmo essere coesi, collaborare, amarci gli uni con gli altri, non essere privati della nostra libertà individuale di esprimerci e di amare.

E se una persona senza evidenti o conclamati disturbi psichiatrici necessita di coltivare queste relazioni, un paziente psichiatrico rende esponenziale questo bisogno, con conseguenze anche gravi, e che aggravano una condizione già pre esistente. E quello che può sembrare un mero e semplice disagio psichico si tramuterà in un disturbo vero e proprio, con manifestazione di segni e sintomi talvolta irrimediabilmente univoca, senza un punto di ritorno. E la poca resilienza che vive ancora in noi sarà inutile.

Con affetto,
Martina

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