Proponiamo un contributo con le riflessioni di un nostro lettore.
In questi giorni di piena emergenza sanitaria, dopo un primo periodo caratterizzato dai sentimenti di, in ordine, angoscia, paura, accettazione delle nuove misure di sicurezza emanate del governo e quindi nello status attuale di quarantena, è giunto forse il momento di fare delle considerazioni e porsi delle domande cercando per un attimo di allontanarsi apparentemente dai numeri dell’emergenza sanitaria in atto.
Mi spiego meglio: in questo momento ci sono cittadini impegnati in prima linea nel fronteggiare l’emergenza, cittadini più o meno costretti a casa impegnati con lo smartworking ed altri che stanno già pensando al post-emergenza, ossia elaborando previsioni basate sui criteri di razionalità e scienza.
E’ giusto fare delle considerazioni e domande finalizzate ad interpretare al meglio la realtà che ci attende quando dovremo riprendere la normalità?
Non è solo giusto, a mio avviso, ma doveroso investire del tempo per pensare, riflettere e cominciare a progettare.Per formulare previsioni e progetti è necessario fare delle considerazioni di carattere antropologico, psicologico, economico, sanitario, politico. La prima considerazione, di carattere antropologico, riguarda l’uomo e la sua natura nel contesto ambientale che vivremo quando finirà l’emergenza pandemica. Un Uomo sicuramente cambiato. O meglio adattato (riprendendo un po’ il principio darwiniano secondo cui nella lotta alla sopravvivenza la specie che meglio si adatta ai cambiamenti prevale).
Quali adattamenti stiamo attuando ora e condizioneranno l’uomo al termine di questo periodo? La seconda considerazione, di carattere psico-sociologico, riguarda la sfera delle relazioni mosse dai sentimenti di paura e coraggio. Seguendo la definizione di paura intesa come sentimento, spesso salvavita, che ci fa percepire un pericolo e che mette in moto il sistema nervoso centrale (amigdala) e quindi l’attivazione di neuroni e neurotrasmettitori (Acetilcolina e Adrenalina) da cui segue l’atteggiamento di combattimento/fuga, sarebbe opportuno chiedersi come cambieranno le nostre relazioni; se affronteremo il pericolo mossi dalla voglia di riunirci o fuggiremo dalle relazioni, soprattutto quelle nuove.
Diventeremo più diffidenti nei confronti del vicino di casa o questa sofferenza comune ci farà riscoprire il sentimento di condivisione, rafforzato dall’emergenza, e quindi torneremo a dare importanza al mutuo soccorso, all’aiuto incondizionato?
La terza considerazione, di natura economica, riguarda il ciclo di produzione e fruizione dei beni. Molto probabilmente al termine dell’emergenza cambieranno gli standard di produzione in termini di sicurezza, non solo del processo produttivo vero e proprio (maggior consapevolezza ed utilizzo dei dpi), ma anche e soprattutto delle merci. Guardiamoci intorno, dentro casa. Siamo circondati da utensili e oggetti vari che nell’intimità della casa possono essere confortevoli e soprattutto adatti a rispettare quelle norme di sicurezza anti contagio dettate dal fatto che la casa in sé sia abitata da un nucleo famigliare essenziale e che dovrebbe essere sterile o comunque non avere una carica microbica patologica. Pensiamo invece ai luoghi di aggregazione, come bar, ristoranti, pub, cinema, teatri, palestre, scuole, discoteche, esercizi commerciali. Probabilmente in questo senso qualcosa cambierà al fine di mantenere quegli standard di sicurezza per garantire la salute pubblica.
Ci saranno spazi di condivisione più ampi? La fruizione degli esercizi commerciali seguirà regole più limitanti in termini di capienza? Le nostre abitazioni riserveranno una stanza per un probabile futuro isolamento di un membro contagiato, o una recovery room domestica in previsione di un’implementazione dell’erogazione delle cure e dell’assistenza domiciliare in un modello di miglior gestione delle risorse e della cronicità?
La quarta considerazione riguarda l’ambito sanitario e nel dettaglio le modalità future di erogazione dell’assistenza e il soddisfacimento dei bisogni di salute dell’utente. Da anni ormai si parla di nuovi modelli di presa in carico, prestazioni a domicilio, telemedicina. In questo senso sarebbe doveroso chiedersi e agire nello sviluppo di nuove competenze finalizzate sia alla formulazione di un nuovo paradigma incentrato sulla prevenzione e sul mantenimento dello stato di benessere, promuovendo e incentivando modelli di vita sani, rendendo più fruibile la prevenzione in senso tecnico; sia investire in competenze tecniche per l’utilizzo delle nuove tecnologie (per esempio la telemedicina) al fine di ridurre i tempi di attesa ed abbattere le distanze. Un’idea potrebbe essere quella di sviluppare e potenziare meglio la nascita di team multidisciplinari in grado di prendere in carico l’utente non solo nello status di malato ma soprattutto quando è sano e guidarlo nel suo stato di benessere. Cominciare a sviluppare l’idea di gestione e cura della malattia a domicilio e a far un uso più consapevole delle strutture sanitarie.
Quali saranno le competenze tecniche dei futuri operatori sanitari? In che modo gli infermieri risponderanno ai bisogni della comunità futura?
L’ultima considerazione di carattere politico abbraccia un po’ tutte le precedenti, e forse funge da cardine e motore propulsore per l’attuazione delle stesse. Stiamo assistendo in questi giorni alle varie strategie messe in atto dai vari capi di stato europei e mondiali per fronteggiare l’emergenza in corso. Appare evidente che non vi sia cooperazione ma soprattutto una linea comune nell’attuare delle misure che valgano per tutti: dall’esecuzione dei tamponi, al blocco totale delle attività e dei servizi. Neanche l’informazione coi relativi dati circa il numero di contagi, di decessi a causa del covid19, dei postivi asintomatici pare obiettiva e standardizzata. Ci auspichiamo una soluzione verso questa direzione, e per il futuro non possiamo che chiedere un maggior rilievo nelle agende di governo circa la salute pubblica e il suo sostegno.
Dai dati mostratici questi giorni dai telegiornali e articoli online emerge la disparità di risorse che c’è tra gli stati membri dell’Unione Europea, ad esempio nel rapporto di operatori sanitari ogni tot di abitanti, o la dotazione degli stessi posti letto in terapia intensiva. Ancor più drammatica appare la disomogeneità dei servizi tra le regioni dello Stivale. E’ ormai decennale la richiesta di aumentare le risorse strutturali e umane per garantire un’assistenza migliore, più personalizzata per l’utente, più olistica. Invece da trent’anni con la legge 502/92 e successive riforme finalizzate all’aziendalizzazione delle strutture sanitarie ci siamo allontanati dalla mission a cui siamo chiamati a rispondere in quanto operatori della salute, anteponendo i numeri di bilancio alle persone e i loro bisogni. In una considerazione più ampia sarà doveroso ammettere gli errori fatti in questi anni di politiche di taglio alla sanità e rimettere in discussione la gestione della stessa. Attualmente l’erogazione delle prestazioni sanitarie è di competenza delle regioni su indicazione del Ministero della Salute. E’ evidente come questo modello abbia generato criticità e disparità per i cittadini, costringendoli a viaggi della speranza presso strutture fuori dalla loro regione di appartenenza, andando ad arricchire le regioni modello secondo la logica “prestazioni erogate-fondi”.
Che la gestione della Sanità Pubblica ritorni ad essere competenza dello Stato?
Fatte queste considerazioni e domande, da infermieri ci mettiamo a disposizione della comunità al fine di farci trovare pronti per il futuro. Come sempre, d’altronde.
Daniele Lombardi
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