È quanto stabilito dalla Cassazione con ordinanza n. 32113 del 31/10/2022.
La vicenda trae origine dalla conferma della sentenza del Tribunale di Gela da parte della Corte d’appello di Caltanisetta, con cui era stato negato ad alcuni dipendenti turnisti di una ASP (Azienza Sanitaria Provinciale) con mansioni di infermieri, il diritto a beneficiare, per il periodo 2001/2010, dei buoni pasto sostitutivi del servizio mensa per ogni turno lavorativo (nelle fasce orarie 07/14, 14/21 e 21/07) eccedente le sei ore, sul duplice presupposto che:
- costoro non avessero mai richiesto la fruizione del servizio mensa al di fuori dell’orario di lavoro – con interruzione del turno per la pausa pranzo e il prolungamento dello stesso per una durata pari all’operata interruzione;
- della non monetizzabilità del pasto.
Contro tale decisione sono ricorsi i dipendenti turnisti in Cassazione, la quale preliminarmente ha precisato di essersi già pronunciata in fattispecie sovrapponibile a questa, confermando in quell’occasione la decisione di merito che, ai fini del riconoscimento del buono pasto a un dipendente adibito a turni orari 13/20 e 20/07, aveva considerato coessenziale alle “particolari condizioni di lavoro” di cui all’art. 29 del contratto collettivo del comparto Sanità del 20 settembre 2001, integrativo del c.c.n.l. del 7.4.1999, il diritto a usufruire della pausa di lavoro, a prescindere dal fatto che la stessa avvenisse in fasce orarie normalmente destinate alla consumazione del pasto o in fasce per le quali il pasto potesse essere consumato prima dell’inizio del turno affermando in sostanza che “In tema di pubblico impiego privatizzato, l’attribuzione del buono pasto, in quanto agevolazione di carattere assistenziale che, nell’ambito dell’organizzazione dell’ambiente di lavoro, è diretta a conciliare le esigenze del servizio con le esigenze quotidiane del dipendente, al fine di garantirne il benessere fisico necessario per proseguire l’attività lavorativa quando l’orario giornaliero corrisponda a quello contrattualmente previsto per la fruizione del beneficio, è condizionata all’effettuazione della pausa pranzo che, a sua volta, presuppone, come regola generale, solo che il lavoratore, osservando un orario di lavoro giornaliero di almeno sei ore, abbia diritto ad un intervallo non lavorato” (Cass. n. 5547 del 2021; v. altresì Cass. n. 15629 del 2021);
Ciò perché, sostiene la Suprema Corte, il diritto alla mensa ex art. 29, comma 2, c.c.n.l. integrativo sanità del 20 settembre 2001 è (invero) collegato al diritto alla pausa, di qui il rilievo del D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 8, a tenore del quale il lavoratore deve beneficiare di un intervallo per pausa qualora l’orario di lavoro giornaliero ecceda il limite di sei ore, ai fini del recupero delle energie psico-fisiche e della eventuale consumazione del pasto. Le modalità e la durata della pausa sono, poi, stabilite dai contratti collettivi di lavoro e, in difetto di disciplina collettiva, la durata non è inferiore a dieci minuti e la collocazione deve tener conto delle esigenze tecniche del processo lavorativo.
Sulla base di questi presupposti, la Cassazione ha annullato la sentenza impugnata e accertato il diritto alla fruizione dei buoni pasto per ogni turno lavorativo eccedente le sei ore.
Tenuto conto, tuttavia, che il pasto non è monetizzabile ai sensi della disciplina vigente, la Corte ha demandato al giudice del rinvio, nell’ambito dei suoi poteri di qualificazione della domanda proposta dai lavoratori, di valutare se attribuire, in presenza dei presupposti di legge, il bene della vita invocato a titolo di risarcimento del danno.
Redazione NurseTimes
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