Il Tribunale di Bari ha riconosciuto per la prima volta il tempo necessario ad indossare la divisa per gli infermieri e gli operatori sanitari dipendenti del capoluogo pugliese.
L’Asl dovrà risarcire 13 operatori socio-sanitari per un importo pari a € 165.000 per il cosiddetto “tempo tuta“. Essendo la divisa un obbligo imposto dal datore di lavoro e considerato che siam necessario tempo per indossarla a inizio turno questo tempo va pagato.
Questa la motivazione che ha spinto il Tribunale a dare ragione ai lavoratori: dovrà essere retribuito il corrispettivo di 20 minuti di lavoro (dieci minuti prima e altri dieci dopo il turno) per ogni giorno di servizio effettivo dal 1995 a oggi, oltre al pagamento delle spese processuali.
Potrebbe dunque questa diventare una “causa pilota” che spinga a denunciare situazioni simili a molti altri professionisti sanitari.
“Questo tempo non era mai stato retribuito dall’amministrazione sanitaria”, spiegano in una nota il segretario nazionale Usppi.
Allo stesso modo si è espressa in passato più volte la Cassazione (l’ultima sentenza è la n. 2965/2017) ribadendo che il tempo necessario per indossare la divisa aziendale deve essere retribuito se la relativa prestazione, anche se accessoria e strumentale rispetto a quella lavorativa va eseguita nell’ambito della disciplina d’impresa e sia esigibile dal datore di lavoro.
Tale sentenza fa riferimento alla definizione legislativa di “orario di lavoro”, ovvero “qualsiasi periodo in cui il lavoratore resta a disposizione del proprio datore di lavoro, nell’esercizio delle sue attività lavorative o delle sue funzioni”.
La Cassazione si era pronunciata in passato in alcune sentenze che non riguardavano il settore sanitario.
Venne riconosciuto un risarcimento ad alcuni dipendenti di un’azienda produttrice di gelati che chiedevano il riconoscimento della retribuzione per il tempo impiegato per indossare e togliere gli abiti imposti dal datore di lavoro (tute, copricapi, ecc.).
Accogliendo parzialmente le motivazioni proposte dai lavoratori, la Corte ha stabilito che il tempo di vestizione necessario per indossare la divisa aziendale rientri nell’orario di lavoro, e allo stesso quindi deve corrispondere una retribuzione aggiuntiva, “se è assoggettato al potere di conformazione del datore di lavoro; l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti, o dalla specifica funzione che devono assolvere, quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento”.
Occorre precisare che esista anche un caso similare, risalente al 2016, nel quale fu negato ad un’Infermiera il pagamento del “tempo tuta”, perché avveniva all’interno dell’orario di timbratura e pertanto doveva ritenersi “compreso nella diligenza preparatoria inclusa nell’obbligazione principale del lavoratore”.
“Da questo momento – sottolinea l’Usppi – molti altri dipendenti vedranno riconosciuto questo diritto comprensivo del risarcimento retroattivo per gli emolumenti non versati dall’azienda sanitaria, rispetto all’orario effettivamente realizzato”.
Simone Gussoni
Fonte: Il Quotidiano Italiano
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