Storie che si alternano o si intrecciano in corsia. Storie che ci fanno apprezzare, nonostante tutto, il nostro Paese.
Mentre l’Italia si fermava per la “maratona Mentana” (sui risultati delle elezioni) e mentre il calcio si fermava anche lui per la morte di Davide Astori, io mi trovavo per caso ad accompagnare un’altra attesa. Quella di una mamma per suo figlio di 12 anni, fuori dal comparto operatorio dell’ospedale pediatrico Bambino Gesù. Uno Stabat Mater che qui va in scena ogni giorno. Lì, a due passi il pronto soccorso più “odiato” e più amato di Roma.
Si tratta della storia di un doppio trapianto difficilissimo, l’unica possibilità di continuare a vivere per il ragazzo Una storia lunga, piena di coraggio e speranza. Una storia che si fa con scelte ardite, piena di fatica e di angoscia, come solo sa chi frequenta questi posti. Una storia bella, che non è ancora una favola. Magari, un giorno, la potrò raccontare tutta. Nel mentre, ho visto cose…
Ho visto una sala di attesa piccola piccola, con un calendario in cui il 4 marzo non vuole sapere di stare su… Tutti qui vorrebbero già che fosse sempre domani.
Ho visto due giovanissimi genitori Rom, anche loro a vivere lì vicino la passione di una neonata di 4 mesi, accudire la “nostra” mamma, aiutati da una lingua comune, il greco. Una parola, una sigaretta insieme, un panino acquistato per lei. Poche cose. Accomunati solo dall’essere lì. Qui non conta lo ius sanguinis, ché quando serve una trasfusione non si bada a sottigliezze. Qui si scavalcano i pregiudizi da salotto, tastiera e telecomando, e si condivide un pezzo di pane, magari acquistato con gli ultimi soldi in tasca.
Ho visto un papà libanese, la cui figlia è stata trapiantata da donatore vivente (la mamma) una settimana fa, aggiornare la “nostra” di mamma, che gli chiedeva.
Negli occhi hanno entrambi quel misto di angoscia, fatica e speranza, che ci rende drammaticamente più fratelli. La mamma annuncia al papà libanese che anche suo figlio ha cominciato il trapianto, e lui giunge le mani, guarda verso il cielo e dice: “Inshallah”. La mamma mormora: “Speriamo”.
Una donna cristiana ortodossa, un uomo musulmano, che si parlano in un italiano stentato, fatto delle poche parole che hanno dovuto imparare per capire medici, infermieri e guardiani notturni. Qui si parla questa stessa, unica lingua. Anche se non si professa la stessa fede, Dio non è un’arma o un merito da sbatterci in faccia, ma una forza e un alfabeto comune.
Ho visto le scatole degli organi della salvezza, doni di un’altra storia che ancora non conosco. Qui si muore e si vive, grazie a quella morte.
Ho visto e ascoltato tanto Sud Italia, altri viaggi della speranza. Qui a Roma si ferma l’Italia che “funziona”?
Ho visto una o più equipe di medici e infermieri italiani lavorare per oltre 14 ore di seguito sul corpo martoriato di un ragazzo che ha peregrinato per l’Europa.
Ho visto un chirurgo (una donna), sfinita ma raggiante, affacciarsi da una porticina – che qui sembra un oracolo – e annunciare alla mamma: “Siamo molto soddisfatti, sta andando tutto bene”. Un sorriso, col pollice in su per farle capire bene. Metto “mi piace” anche io, abbraccio la mamma, che si rilassa un po’… Qui si soffre e si gioisce insieme. Qui si spera e si piange insieme.
Caro 4 marzo 2018, ora che sei finito, ora che sappiamo chi ha “vinto”… ma non sappiamo chi ci governerà, ora che tanti si illudono di trovare presto soddisfazione per la propria rabbia e le proprie paure, generandone altre, ho visto un futuro possibile. Non è bello “stare” qui. Ma che bell’Italia possibile quella che ho visto dal Bambino Gesù.
Simone Gussoni
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