I ricercatori hanno utilizzato una tecnica simile a quella già impiegata per altre malattie rare del sangue.
La terapia genica, soprattutto se somministrata in giovane età, potrebbe rappresentare una strategia di cura efficace per la beta talassemia, una malattia genetica molto diffusa nell’area mediterranea (oltre 7mila pazienti solo in Italia). È questo il risultato del primo trial clinico di terapia genica per la beta talassemia realizzato sia in pazienti adulti che pediatrici, frutto di oltre dieci anni di lavoro del gruppo di ricerca di Giuliana Ferrari, docente dell’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Un lavoro reso possibile dall’alleanza strategica tra Irccs Ospedale San Raffaele, Fondazione Telethon e Orchard Therapeutics.
La malattia
La beta talassemia è una malattia genetica del sangue causata da una mutazione del gene che codifica per la beta-globina, componente della emoglobina e proteina fondamentale per il funzionamento dei globuli rossi, in particolare per il trasporto dell’ossigeno. Esistono oltre 300 mutazioni note di questo gene, che possono dare origine a forme di beta talassemia di diversa gravità. Le mutazioni più gravi causano una quasi totale assenza della proteina nel sangue dei pazienti, che per sopravvivere devono ricorrere a frequenti trasfusioni, con una riduzione drammatica della qualità della vita, o al trapianto di midollo osseo da donatore.
Come funziona la terapia
Lo studio ha coinvolto nove soggetti di diversa età (tre adulti sopra i trent’anni, tre adolescenti e tre bambini sotto i sei anni), tutti con forme di beta talassemia gravi, tali da renderli trasfusione dipendenti. I ricercatori hanno utilizzato una tecnica di terapia genica simile a quella già impiegata all’SR-Tiget per altre malattie rare del sangue.
Il protocollo prevede innanzitutto la raccolta delle cellule staminali dal sangue periferico dei pazienti. Per ristabilire il corretto funzionamento di queste cellule e dei globuli rossi in cui possono differenziarsi, i ricercatori hanno quindi inserito al loro interno una copia funzionante del gene della beta-globina, utilizzando un cosiddetto vettore lenti virale. Si tratta di un virus appartenente alla stessa famiglia dell’Hiv, svuotato del suo contenuto infettivo e trasformato in vero e proprio mezzo di trasporto per la terapia. Infine le cellule staminali corrette sono state reinfuse direttamente nelle ossa, così da favorire il loro attecchimento nel midollo osseo.
A distanza di oltre un anno dal trattamento – i soggetti adulti sono stati trattati per primi, ormai quasi tre anni fa – la terapia risulta sicura ed efficace: in tre dei quattro pazienti più giovani con un follow-up sufficiente per la valutazione si è raggiunta la totale indipendenza dalle trasfusioni di sangue, mentre nei tre pazienti adulti si è ottenuta una significativa riduzione della loro frequenza. Solo uno dei bambini trattati non ha riportato effetti positivi sul decorso della malattia, e i ricercatori stanno ora cercando di capirne il motivo.
I commenti
«È la prima volta che la terapia genica per la beta talassemia viene utilizzata in pazienti pediatrici – spiega Giuliana Ferrari –. I risultati raccolti finora dimostrano non solo la sua sicurezza in questo contesto, ma anche la sua maggiore efficacia. Dal momento che la malattia compromette in modo progressivo l’integrità del midollo osseo, intervenire in giovane età permette di ottenere risultati migliori».
Oltre al fattore età, un altro elemento chiave è l’efficienza del “trasferimento genico”, ovvero la capacità dei vettori virali di inserire con successo nelle cellule dei pazienti il gene terapeutico. «In patologie complesse come la beta talassemia può giocare un ruolo importante. Ecco perché la messa a punto di protocolli innovativi, capaci di massimizzare l’efficacia dei vettori, è una delle nostre priorità», conclude Ferrari.
Il pool di studiosi
A rendere possibile lo studio, pubblicato su Nature Medicine, è stata la sinergia tra ricercatori di base e clinici, e in collaborazione tra l’Unità operativa di Immunoematologia pediatrica e quella di Ematologia e trapianto di midollo dell’Ospedale San Raffale, dirette rispettivamente da Alessandro Aiuti e Fabio Ciceri, insieme al Centro malattie rare del Policlinico di Milano, diretto da Maria Domenica Cappellini. Con il coordinamento clinico della dottoressa Sarah Marktel, si è avvalso della partecipazione di altri centri italiani specializzati in talassemia e della collaborazione con alcune associazioni di pazienti (in particolare dell’Associazione talassemici drepanocitici lombardi Onlus), che ha favorito il dialogo nella comunità dei pazienti grazie a un percorso ad hoc. Quest’ultimo ha previsto anche diversi eventi di informazione pubblica e un contributo attivo alla stesura del consenso informato.
Il contributo di San Raffaele e Fondazione Telethon
L’Istituto San Raffaele Telethon per la terapia genica di Milano (SR-TIGET) è nato nel 1995 grazie a una joint venture tra l’Ospedale San Raffaele e Fondazione Telethon. SR-TIGET è oggi un punto di riferimento a livello internazionale per la ricerca sul trasferimento genico e il trapianto cellulare per diverse malattie genetiche. Per trasformare i risultati della ricerca in terapie per i pazienti, nel 2010 Fondazione Telethon e Ospedale San Raffaele hanno siglato un’alleanza strategica con GlaxoSmithKline (GSK) per affiancare alle competenze della ricerca le capacità di sviluppo dell’industria farmaceutica.
Obiettivo dell’alleanza era rendere disponibile la terapia genica per sette malattie genetiche rare, tra cui l’ADA-SCID (per la quale nel 2016 è stata approvata e messa in commercio la prima terapia genica ex-vivo, Strimvelis) e la beta talassemia. Nel 2018 GSK ha trasferito a Orchard Therapeutics, azienda farmaceutica inglese focalizzata sulla terapia genica, il proprio portafoglio di terapie geniche: non solo Strimvelis, ma anche due programmi in fase avanzata di sviluppo clinico prossimi alla registrazione (su leucodistrofia metacromatica e sindrome di Wiskott-Aldrich) e il programma di ricerca clinica in corso sulla beta talassemia.
Redazione Nurse Times
Fonte: www.corriere.it
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