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Noi infermieri: “pellegrini” con tante speranze.

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Noi infermieri: “pellegrini” con tante speranze.
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Proponiamo le riflessioni del collega Giuseppe Catalluddo sulla nostra professione.

Ogni giorno apro le pagine di internet in cerca di un cambio compensativo. Ogni giorno migliaia di professionisti fanno lo stesso e pensano: non credo che ce la farò; non credo ci sia via di scampo; penso che non riuscirò più a tornare definitivamente a casa mia. Questa è la storia di una persona normale, un professionista, un infermiere che, come molti colleghi del Sud, è stato costretto ad andare via dalla sua amata terra, la Puglia, per cercare lavoro, per realizzare i propri sogni, per tentare di affermarsi nel proprio ambito lavorativo.

Ricordo il giorno della laurea, e quell’energia con la quale sentivo di poter affrontare tutto. Ricordo quell’adrenalina che mi faceva dire: “Il mondo è mio. Ci sono anch’io, sto arrivando”. Ricordo le speranze di un ragazzo che sognava di lavorare nell’ospedale del proprio paese, di essere un punto di riferimento per i propri pazienti, di tornare finalmente a casa, una volta conclusa la sua parentesi universitaria. Ma, si sa, l’università è un luogo che protegge. All’università ci stai per studiare e per crescere. Ma la vita vera, la dura realtà viene dopo: è lì fuori che ti aspetta.

Ebbene sì, presto mi scontrai col mondo. Presto mi trovai in balia delle onde. Quando si parlava tra colleghi, la solita litania era: non c’è lavoro, al Sud; per imparare, devi farti l’esperienza fuori; i concorsi sono più giusti e sono di più al Nord. Oppure: sai, sarebbe bello partire. Dopo una breve parentesi a casa, dove mi sentii felice perché ero circondato dalla mia famiglia e dai miei amici più cari, mi feci coraggio, comprai due valigie e mi trasferii in Galles, anche contro la volontà dei miei genitori. E forse – e dico forse – anche un po’ contro la mia. All’epoca ero più giovane, più avventuroso. Volevo fare esperienza. Insomma partii. Ciao, vado in Galles.

Un sistema sanitario diverso dal nostro, sicuramente migliore per alcuni versi, ma peggiore per altri (non sarà questo l’articolo in cui discuterò di ciò). Lì incontrai altri connazionali, molti della mia stessa regione e altri di regioni limitrofe, andati lì per cercare una condizione diversa di lavoro, una condizione diversa di vita. Tutti gioiosi, tutti con gli occhi pieni di speranza, tutti con gli occhi pieni di ambizione. Ma quella luce che ci caratterizzava all’inizio, pian piano, si indeboliva, si affievoliva. Quell’entusiasmo si spegneva. La maggior parte si chiedeva perché. Nessuno diceva la motivazione, nessuno lo ammetteva, ma in fondo la conoscevamo tutti. Ci mancava casa, ci mancava la nostra terra, ci mancavano i nostri affetti. Ci mancava l’Italia. Perché, volente o nolente, siamo italiani e amiamo la nostra penisola, con i suoi lati positivi e i suoi lati negativi.

Vuoi o non vuoi, si era creato un piccolo gruppo. E nel frattempo si cresceva, forse per la lontananza, dando priorità alle cose realmente importanti della vita. Pertanto a uno a uno, come le tessere del domino, cadevamo in un piccolo baratro di malinconia e nostalgia. E prima che tutto si facesse grigio come il cielo di Gran Bretagna, tornavamo verso il sole della nostra terra. Tornavamo a casa. Molti andarono via prima di me e molti sono andati via dopo di me. È vero, vedi un modo diverso di lavorare, assumi padronanza di un’altra lingua e diventi cittadino del mondo, ma forse capisci che il tuo mondo ha bisogno di altro.

Quindi che fai? Torni in Italia. Ma manca una tessera al nostro puzzle. Devi pur sempre affermarti nella società. Devi trovare un lavoro, vincere un concorso pubblico. Ed ecco che questa volta, forse, puoi abbandonare le valige, ma ti munisci di uno zaino. Quindi iniziano gli innumerevoli viaggi per raggiungere i luoghi di un concorso. Viaggi di dodici ore in autobus, o di sette in treno. Oppure la soluzione più comoda, ma più costosa: prenoti l’aereo e un B&B per trovarti l’indomani già sul luogo di svolgimento della prova. Insomma, inizia quella fase in cui un infermiere diventa girovago, in cerca di lavoro. Al freddo, al gelo, sotto la pioggia battente o il sole cocente, noi infermieri ci siamo. E siamo lì: un gruppo numerosissimo di persone, che rende gremiti i palazzetti di tutta Italia. Lo si fa per bisogno. Lo si fa per lavoro.

I giorni, i mesi e alcuni anni passano. Finalmente vinci un concorso a tempo indeterminato e ti chiamano. Trepidante, ti accingi a prendere una penna per apporre la tanto desiderata firma. Ed ecco quella gioia, quell’adrenalina, quelle ambizioni, quella voglia di fare ritorno. Ma noti che c’è una postilla nel contratto: per due o cinque anni (a discrezione delle aziende sanitarie ospedaliere); non sono concesse mobilità. Sei lì, da solo, e pensi: finalmente firmo l’indeterminato; sono più fortunato di altri; più in là troverò un cambio.

Ben presto, però, ti rendi conto che non è cosi: sono inesistenti, o veramente pochi, i cambi dal Sud al Nord. E quindi che fai? Ricominci a fare concorsi per avvicinarti a casa. Ritorni in quello strano sistema. Risali su quella pazza e incessante giostra, che non ti permette di vivere la vita dove e con chi vorresti. Vuoi scenderci, da quella giostra, ma sai che scenderai solo quando avrai raggiunto il tuo obiettivo. Capisco che le aziende, in qualche modo, si debbano tutelare. Do loro anche ragione.

Le domande che ci poniamo sono sempre le stesse. Perché viviamo lontani dalle nostre famiglie? Perché non possiamo vivere vicino ai nostri genitori e godere della loro presenza, visto che un giorno non ci saranno più? Perché non possiamo vivere vicino alle nostre amate o i nostri amati? Perché il lavoro ci deve allontanare? Molti padri e molte madri, per esigenze lavorative, si devono necessariamente perdere una parte di vita dei figli, almeno finché non otterranno il ricongiungimento parentale. Perché togliere la possibilità e la scelta naturale di essere genitori? Non sempre si può scegliere tra lavoro e amore.

In conclusione, siamo “pellegrini” sereni, che non riescono, per lo meno non subito, a tornare nella propria terra. Ricordo le speranze di un ragazzo che sognava. Mi ritrovo adulto, con parte dei sogni realizzati e altri no, con ancora tanta voglia di fare e con nuovi obbiettivi da raggiungere. Ma senza mai perdere la speranza.

Ah, io non ho ancora posato la valigia.

Giuseppe Catalluddo

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