Il collega Pancrazio Tundo, dipendente dell’ospedale San Gerardo di Monza, parla all’Ansa del suo isolamento a domicilio.
“Tutti, anche in casa, indossiamo la mascherina e, per non far angosciare i bambini, cerchiamo di raccontarla come se fosse un gioco”. Pancrazio Tundo lavora come infermiere nella Terapia intensiva dell’ospedale San Gerardo di Monza, e vive da tre giorni in isolamento a domicilio. “La vita da ‘confinato’ in quarantena è più dura di quanto sembri, ma il mio pensiero è ora ai colleghi che sono in servizio. Nella difficoltà si ritrova l’unità”.
Dirigente sindacale di Nursind Monza, Pancrazio aveva da poco finito il turno sabato scorso, quando nel suo reparto è stato individuata una persona sospettata di aver contratto il coronavirus. “La conferma – racconta all’Ansa – è arrivata quando ero già a casa. Quindi è scattata la procedura di isolamento per chi era entrato in contatto col paziente. E da tre giorni sono bloccato qui”.
Come lui, a trascorrere questi giorni in quarantena, sono tanti operatori sanitari: ben 25 solo nel suo reparto. Com’è la vita chiuso h24 tra quattro mura? “Ho la fortuna di avere una stanza e un bagno per me. Mia moglie ha un attività proprio e in questi giorni la tiene chiusa perché anche le scuole sono chiuse. Oltre a occuparsi dei bambini, fa la spesa, cucina e si occupa di disinfettare le stoviglie. Con i miei tre figli piccoli ci parliamo da una stanza all’altra. Giriamo dentro casa con le mascherine, ma per fargliele accettare abbiamo cercato di trovare un escamotage scherzoso, facendo finta di mascherarci tutti per Carnevale”.
La cosa difficile, specie con il più piccolo, è fargli accettare la distanza: “Il premio lo vince chi non mi abbraccia”. Vivere così è “complicato e snervante, sembra il tempo non passi mai”. Ma quello che lo preoccupa sono i colleghi: “Quelli che stanno facendo turni pazzeschi per coprire l’assenza di chi è a casa e quelli, tra cui anche madri, che stanno facendo la quarantena in ospedale. Vorrei poter esser lì a dargli il cambio”.
Pancrazio ha deciso di diventare infermiere tanti anni fa: un lavoro faticoso, sottopagato, che richiede un lungo percorso formativo. “Ma questa – spiega – è stata finora la prova più dura. E’ proprio in situazioni del genere, però, che ti senti parte di una grande famiglia, screzi e dissapori si azzerano. Siamo una squadra e, per aiutare i pazienti, dobbiamo aiutarci l’un l’altro. Aver fatto emergere questo sentimento è un lato positivo di questa situazione”.
Redazione Nurse Times
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