Traccerà la prossimità tra le persone, inviando un’allerta se si è stati vicini a qualcuno risultato positivo.
“L’applicazione di contact tracing non ha l’obiettivo di geolocalizzare, ma quello di ricostruire gli eventuali contatti fra persone”. La ministra dell’Innovazione, Paola Pisano, racconta così la via italiana alla lotta al coronavirus ai tempi degli smartphone. Nessun modello coreano fatto di analisi delle immagini delle videocamere di sicurezza e dei dati inviati dal gps, ma “semplice” mappa delle prossimità fra cittadini grazie al bluetooth. A patto che i cellulari delle persone coinvolte abbiamo l’applicazione istallata.
Non ha ancora un nome, la app scelta dalla task-force di 74 esperti – quello lo dirà il presidente Giuseppe Conte -, né si sa quando verrà lanciata con esattezza. Ma la via scelta somiglia molto a quella intrapresa da Singapore, dove adesso stanno affrontando la terza recrudescenza del Coronavirus. Si tratta di un’app che si limita a registrare segnali di vicinanza in forma anonima, grazie a bluetooth e wi-fi, e avverte chi è entrato in contatto con una persona risultata positiva.
I cittadini italiani che la scaricheranno forniranno tre informazioni: qual è il dispositivo con il quale sono stati in contatto, a che distanza, per quanto tempo. Nel caso in cui qualcuno risultasse positivo, l’operatore medico che deve essere autorizzato dal cittadino stesso, attraverso un codice identificativo anonimo invierà un messaggio di allerta per informare tutti quegli utenti, sempre identificati in modo anonimo che sono entrati in contatto con chi ha contatto il virus.
“Sarò chiara – sottolinea Paola Pisano –, l’obiettivo è ridurre le possibilità di contagio, ma non sarà una sola applicazione a risolvere tutto. L’applicazione è parte di un sistema integrato del quale i protagonisti saranno inevitabilmente aspetti non tecnologici”.
Il problema della volontarietà rischia però di compromettere l’efficacia di questo strumento. “Da noi le app e i questionari online sono obbligatori quando si è positivi, ma stiamo pensando di renderli tali anche per tutti gli altri”, spiega al telefono Kira Radinsky, della Diagnostic Robotics e capo ricercatrice sul fronte big data di eBay, oggi in Israele in prima linea nella guerra al Coronavirus. A Tel Aviv, grazie ai dati, elabora mappe in tempo reale di dove il contagio potrebbe allargarsi nelle prossime ore e ha messo a punto una serie di questionari per ridurre l’afflusso negli ospedali.
E’ vero che tutti questi sistemi sono solo un tassello per combattere la pandemia, ma sono anche importanti “per contenere il Coronavirus senza la necessità di quarantene di massa”, sostiene uno studio dell’Università di Oxford pubblicato sulla rivista Science. “A patto però che siano usate da un numero sufficiente di persone”. Da un terzo alla metà delle trasmissioni del virus avvengono da individui pre-sintomatici, che ancora non sanno di essere infetti. Ecco perché un’applicazione di tracciamento dei contatti avvenuti può portare al controllo dell’epidemia e permettere al Paese anche di riprendere a funzionare a patto che sia utilizzata dalla stragrande maggioranza dei cittadini.
In Corea del Sud, più che una app vera e propria, sono state messe in campo a partire dall’epidemia Mers del 2015 soluzioni che raccolgono dati dalle videocamere di sicurezza, i movimenti della carta di credito e il gps dello smartphone, con notifiche che arrivano ai cittadini quando un nuovo caso viene scoperto nella loro area. “Compiamo le nostre indagini come fossimo ufficiali di polizia – ha spiegato al New York Times Ki Mo-ran, epidemiologo che lavora per conto del governo di Seoul –. E con il tempo abbiamo rivisto le nostre leggi per dare priorità alla sicurezza invece che alla privacy in caso di crisi sanitarie”.
Non è un modello che avremmo mai potuto adottare quello di Seoul. Anche perché la Commissione europea ha appena pubblicato una serie di raccomandazioni sul tema per un approccio comune. Si teme il proliferare di metodi diversi e di regole diverse in un mercato digitale che è già unico e che ha regole comuni. Fermo restando le deroghe al Gdpr in caso di emergenza sanitaria, il commissario per il Mercato interno, Thierry Breton, e per la Giustizia, Didier Reynders, propongono “una cassetta degli attrezzi congiunta verso un approccio coordinato per l’uso di app per smartphone che rispettino gli standard di protezione dei dati dell’UE”. In sintesi: confronto con gli operatori di telefonia mobile già avviato per avere i dati in forma anonima trasmessi poi al Centro comune di ricerca (CCR) per l’elaborazione e la modellizzazione.
Le informazioni non saranno condivise con terze parti e verranno conservate solo finché la crisi è in corso. Poi entro il 15 aprile 2020 gli Stati membri, insieme alla Commissione, svilupperanno quella “cassetta degli attrezzi” dai quali i vari Paesi potranno attingere per costruire le proprie app in associazione con il comitato europeo per la protezione dei dati. E ci sarà tempo fino al 31 maggio 2020 per rendere le misure scelte accessibili alla stessa Commissione per una valutazione. Non deve accadere che ognuno va per proprio conto e si presuppone che la app Italiana sia in linea con le scelte Eu. La stessa preoccupazione, a livello italiano, l’aveva espressa il garanate per la privacy Antonello Soro, vista la proliferazione di app regiobali o perfino comunali.
“Siamo in un campo sperimentale che può aiutare nel contrastare il virus e allo stesso tempo può non essere infallibile”. Mette le mani avanti Paola Pisano, cosciente che per arrivare a dei risultati tangibili la strada potrebbe essere ancora lunga. “Dalla scelta dell’app al suo utilizzo molto è ancora da fare, compresa una fase di test”, conclude.
Redazione Nurse Times
Fonte: Repubblica
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