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Il valore delle RSA a gestione infermieristica in tempo di Covid

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Il valore delle RSA a gestione infermieristica in tempo di Covid
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Il punto di Stefano Chivetti e Mariaflora Succu

«L’emergenza Covid non ha fatto che rendere maggiormente evidenti le criticità del settore; criticità che chi gestisce le RSA già aveva ben chiare e rispetto alle quali, da tempo, aveva mostrato le proprie perplessità. Molto spesso si tende ad addebitare alle gestioni private le problematiche di questo delicatissimo settore socio-assistenziale. A nostro avviso non può e non deve essere questo il metro di misura, quanto piuttosto ridefinire i criteri e le regole del sistema e vigilare attentamente sull’effettiva applicazione di quanto deciso». È quanto affermano Stefano Chivetti, presidente dello studio Auxilum, studio associato di infermieri liberi professionisti attivo dal 1995, e Mariaflora Succu, direttore del Centro Residenziale L’Uliveto di Firenze, una delle poche strutture per anziani a gestione e soprattutto direzione infermieristica. A loro, l’Ordine delle professioni infermieristiche interprovinciale Firenze Pistoia ha chiesto di fare il punto sul valore aggiunto rappresentato dalle RSA caratterizzate, appunto, da una gestione infermieristica nell’emergenza Covid, e su cosa può essere migliorato in ambito socio sanitario per il futuro.

L’estensione h24 della copertura infermieristica. 

«Con l’emergenza Covid, nelle RSA si è aperto un vaso di Pandora – spiega Succu – che ha rivelato al mondo la portata delle criticità di cui eravamo già assolutamente consapevoli. Tra queste, di grande rilevanza, il fatto che per la normativa regionale non è obbligatorio un coordinamento infermieristico, né parimenti lo è la presenza sulle 24 ore di personale infermieristico nelle strutture socio sanitarie, e, nemmeno, un’organizzazione legata alla effettiva complessità assistenziale degli ospiti. La normativa non prevede, per esempio, la facoltà per il gestore di compensare parte delle ore di assistenza di base, svolta da figure assistenziali quali gli addetti all’assistenza di base (ADB) e gli Operatori Socio Sanitari (OSS), con ore di assistenza infermieristica, laddove la complessità assistenziale degli ospiti lo richiede. La flessibilità al contesto del modello, con la possibilità di incrementare l’assistenza infermieristica, renderebbe le RSA luoghi di accoglimento di bisogni che ad oggi sono comunque largamente espressi e che trovano risposte non qualificate o frammentate».

«Molte strutture, pur nel rispetto del parametro normativo di presenza infermieristica, non hanno di fatto l’infermiere nel turno notturno pur avendo ospiti la cui complessità lo richiederebbe: se una persona ne ha bisogno, questo bisogno non può essere legato ad una fascia oraria – aggiunge Chivetti -. Le strutture dovrebbero poter sostituire, all’occorrenza, un OSS con un infermiere che possa offrire per le proprie competenze adeguata assistenza ai pazienti».

Il valore aggiunto di una gestione sanitaria. «Tutte le strutture – spiega Succu – nascono come realtà prioritariamente sociali e secondariamente sanitarie. Oggi lo scenario è completamente cambiato. L’allungamento della vita conduce a una vecchiaia in cui la componente sanitaria non è marginale ma prevalente. Se il mix di operatori previsti nelle RSA verte maggiormente nella parte sociale anziché su quella sanitaria, non sarà possibile erogare il mix assistenziale che i bisogni degli ospiti richiedono, e non è possibile esprimere, nel momento della necessità, le competenze necessarie: l’emergenza Covid ne è stato un triste ed eclatante esempio. In questo senso la Direzione infermieristica di una RSA può fare la differenza, anche nella proattività rispetto agli scenari che una pandemia impone. Molte strutture hanno pagato a caro prezzo e senza averne colpa il retaggio di un assetto ormai non più realistico, di stampo non sanitario».

La necessità di percorsi di formazione.

«Poste queste premesse, sostenere la gestione infermieristica non è però ancora abbastanza – aggiunge Chivetti -. È necessario andare oltre e avere infermieri con competenze nella gestione di strutture sanitarie. Abbiamo spesso una serie di comorbidità nelle RSA e per questo servono figure infermieristiche formate e competenti nell’ambito specifico. L’idea dell’infermiere pronto alla fine del percorso di studi ad affrontare tutti i setting di lavoro è da abbandonare definitivamente in favore di una figura professionale che, forte di una solida formazione di base, possa acquisire formalmente ed esprimere sul campo le competenze specifiche di questo o quell’ambito. È necessario che la formazione, anche quella di base, non sia orientata esclusivamente allo scenario ospedaliero: oggi per lavorare al di fuori degli ospedali pubblici nel settore privato sono necessarie competenze di alto livello clinico. Il ricovero di un anziano proveniente da una RSA molto spesso rappresenta il fallimento del sistema di accoglimento e cura: su questo nodo cruciale è necessario fare autocritica e rivedere il sistema. Non è sufficiente parlare genericamente di fragilità, è necessario invece fornire al sistema delle RSA strumenti adatti a tutelare realmente le persone fragili».

Servono norme per distinguere ciò che è ‘bene’ da ciò che è ‘male’. 

«La regia del sistema pubblico è fondamentale: devono essere dettate norme e regole chiare e adatte al contesto, poi perde di importanza se chi le mette in atto è un soggetto pubblico o privato – afferma Chivetti -. È sulla base dell’adesione alle norme, una volta che queste siano riviste e rese coerenti con i bisogni, che si può giudicare se il gestore della RSA, privato o pubblico che sia, sta facendo un buon lavoro. È giusto sottolineare che esiste, in ogni caso, un privato competente, professionale, serio cui affidare l’erogazione diretta dei servizi e, quindi, anche la gestione delle RSA: in questo senso il discrimine non è sul “chi” ma sul “come”. Particolare attenzione deve essere posta anche alle gare d’appalto dei servizi che potrebbero essere facile preda di soggetti che mirano alla speculazione nel settore e non alla cura».

«Sul fronte del personale da adibire all’assistenza nelle RSA è necessario ripartire da una base comune e fare scelte coraggiose – spiega Succu -. Non è accettabile che nel nostro Paese convivano una pletora di CCNL diversi che prevedono retribuzioni e condizioni anche sostanzialmente diverse a parità di qualifica e di mansioni: si pensi anche solo all’orario di lavoro settimanale che nel pubblico è pari per il comparto a 36 ore settimanali mentre nella maggior parte del CCNL del settore privato è di 38 ore».

«In questo modo l’infermiere che lavora in RSA sarà sempre considerato e si sentirà un infermiere di serie B – aggiunge Chivetti – che vive con un senso di frustrazione continua ed è spinto a cercare altre strade. Questo non permette né la stabilizzazione dei professionisti né la continuità assistenziale. In un reparto di medicina il ricovero medio è di 6/7 giorni. Nelle RSA la persona entra e nella maggior parte dei casi finisce la propria vita all’interno della struttura: è indispensabile che si creino le condizioni per garantire la continuità di cura e che siano gratificanti per i professionisti e per gli operatori in generale».

Una riflessione che porta a un altro punto cruciale: la presenza all’interno delle strutture socio sanitarie di diagnostica di primo livello e di un medico unico.  «Su 50 ospiti ci sono in media 35/40 medici. E questo è stato probabilmente uno dei motivi di contagio nell’esperienza Covid – afferma Succu -. Dovremmo seguire il

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