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“Io, Covid positivo, speriamo che me la cavo”

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"Io, Covid positivo, speriamo che me la cavo"
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Riceviamo e pubblichiamo le riflessioni di Antonio Savino, dottore in Scienze infermieristiche dell’Aorn Caserta – Dipartimento di Scienze cardiologiche e vascolari.

Questi sono tempi di fatica per noi operatori sanitari: le nostre competenze specifiche hanno ceduto il passo alla gestione di un’emergenza sanitaria mai sperimentata finora. Tuttavia sono anche tempi di “pensosità riflessiva”, che ci consentono di imparare cose nuove, che ci chiedono di ripensare al peso delle nostre azioni assistenziali, solitamente agite con sicurezza. Attività di cura messe in discussione in ogni gesto e in ogni pensiero che si realizzi intorno al letto del paziente.

Questa sfida quotidiana, benché estenuante, permetterebbe di creare legami, di rinforzare i rapporti nei gruppi, di aumentare il senso di appartenenza a un contesto repentinamente cambiato. La paura è una “emozione” continua, fa percepire il luogo di lavoro pericoloso, insicuro. Il rito della vestizione per la protezione individuale diventa una gestualità attenta e fatta di scrupolosità.

La massima espressione d’amore che puoi rivolgere ai tuoi familiari di questi tempi è non stare con loro, allontanarti, magari vivere in case separate. Il timore di sapersi un potenziale “untore” modifica i rapporti, le relazioni, il modo di comunicare, i contatti.

All’improvviso una comunicazione ti coglie di sorpresa: tampone positivo; quarantena per quattordici giorni con rigorose norme di isolamento domiciliare, quarantena fiduciaria anche per i tuoi familiari. Improvvisamente tutto si ferma, la tua quotidianità riceve uno stop. Un nodo alla gola si palesa, un senso di angoscia. Mi commuovo al pensiero delle videochiamate con i miei cari, i miei affetti. E mi ritrovo solo nella mia stanza dell’isolamento, in silenzio, per fortuna asintomatico.

Cerchi di salvaguardare la tua famiglia: è incredibile come la mente ricerchi subito delle improbabili spiegazioni e ti rimprovera di poter essere stato in qualche modo superficiale, disattento, poco professionale. E non mi do pace a ogni piccolo colpo di tosse delle persone care.

Le giornate passano lentamente tra lettura, studio e scrivere qualche appunto di “viaggio”. Le strade sono silenziose, nemmeno il mattino si sentono passare le auto. Mi ritrovo ad ascoltare i rumori in lontananza. Penso alla condizione di molti lavoratori che vivono un momento di difficoltà e di incertezza economica per il loro futuro, di fatica a garantire il sostentamento della propria famiglia. Mi dico: “tutto sommato, sono fortunato”.

Questo spazio di isolamento forzato mi offre momenti di riflessione, di introspezione, che mi portano a pensare quanto ogni giorno la nostra operosità si concretizza nell’esserci, nell’agire con impegno e determinazione per il nostro lavoro. Questa “arte” ci permette di essere persone migliori, di essere utili agli altri in momenti in cui loro, gli altri, i pazienti, non possono fare da soli. Questo tempo ha permesso di far uscire l’invisibilità della nostre cure assistenziali, spesso scontate, talmente necessaria che diventano “evanescenti” come l’aria.

Non siamo eroi, siamo umani, di quella specie che, ontologicamente e deontologicamente parlando, si pre-occupa e si prende cura dei più fragili, che partecipa fattivamente alla salvaguardia del valore della Vita. Ringrazio l’universo per avermi dato la possibilità di fermarmi, di poter essere pronto al rientro con maggiore lucidità, con la determinazione che mi fa dire: “Ho dovuto riattraversare l’inferno e tornare indietro per andare avanti”.

Vincere è far finire il gioco. E in questo gioco io voglio vivere, non voglio partecipare.

Antonio Savino

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