“A un anno dall’inizio della pandemia sono scoraggiato. Purtroppo è un sentimento diffuso: tanti colleghi hanno perso entusiasmo e fiducia”
“Un anno fa c’erano entusiasmo, adrenalina, voglia di fare. Un anno fa sentivamo la vicinanza delle persone, il loro appoggio, il loro farci sentire importanti perché eravamo l’unica salvezza di fronte a quel virus sconosciuto che ha causato la morte di tantissime persone. Oggi, dopo un anno, sono scoraggiato, stanco, pervaso da un sentimento di sconforto e spesso penso che, se le cose non cambieranno, lascerò questa professione che tanto amo”.
Questo è l’incipit dell’intervista che un infermiere che lavora in un ospedale della Brianza ha rilasciato al giornale MonzaToday.
Antonio è il suo nome, ed è l unica informazione resa nota circa la propria identità, nel rispetto di quanto indicato dalla propria direzione generale onde evitare provvedimenti disciplinari.
“Tanti premi, ma nessun vero riconocimento del nostro lavoro”
Antonio ha affrontato l’emergenza in prima linea a partire dal primo giorno. Da oltre un anno la sua vita prevede solamente casa e ospedale, con i propri parenti lontani e preoccupati per quanto sia accaduto e stia tuttora accadendo negli ospedali del nord Italia.
“Dopo un anno sono cambiate tante cose, ma l’emergenza è rimasta – racconta -. Oggi sono molto scoraggiato: siamo stati travolti da apprezzamenti, premi dalle istituzioni locali e nazionali, adesso persino la candidatura al Premio Nobel. Poi però, in sostanza, solo belle parole e bei gesti. Ma la considerazione che la politica e le aziende hanno degli infermieri non è cambiata.
Questa terza ondata è la peggiore, perché anche la gente si è dimenticata di noi. Ma soprattutto mentre un anno fa abbiamo potuto fare affidamento sui medici e sugli infermieri provenienti da altre regioni e nazioni, questa volta non è più così. La pandemia adesso ha colpito tutta l’Italia e anche all’estero non se la passano meglio tutti alle prese con le nuove varianti”.
“Un anno fa eravamo eroi, oggi la gente ci insulta”
Antonio ricorda quando un anno fa è iniziato tutto. “Dall’oggi al dobbiamo siamo finiti in trincea. È stato bello sentire il calore della gente: ci chiamavano eroi, ci facevano trovare le colazioni, pranzi e cene in reparto perché sapevano che non avevamo neppure il tempo di andare a mangiare. Ci hanno dato carica e adrenalina. Alla fine eravamo felici: pensavamo che ormai la pandemia fosse stata sconfitta, che comunque in estate la politica e gli ospedali si sarebbero organizzati”. Ma non è stato così. E alla vigilia della seconda ondata – che non ha mai avuto fine e che ha portato direttamente a questa terza – gli infermieri erano già stanchi e frustrati. “C’era bisogno di nuovo personale, ma non lo si può inventare e formare dall’oggi al domani. L’unica certezza erano i vaccini, ma anche la scelta di escluderci dalla campagna di somministrazione ci ha fatto capire che la politica non ha ancora compreso l’importanza del ruolo dell’infermiere, non solo in corsia, ma anche sul territorio”.Antonio è scoraggiato. “Fa male vedere che anche le persone che un anno fa ci chiamavano eroi oggi ci insultano ci guardano con stizza accusandoci di essere “garantiti” perché siamo stati i primi a vaccinarci”.
“Sono stanco di essere usato”
Antonio non sa se continuerà a fare l’infermiere: sa di essere stato fortunato, perchè ha un lavoro sicuro. “Ma continuare a queste condizioni è difficile – conclude – In questi dodici mesi mi sono sentito usato e non valorizzato. Non solo io, ma tutta la mia categoria. Non si può pensare che quando si tratta di gratificarci per quello che valiamo, valorizzando le nostre competenze, tenendo conto dei percorsi professionali, garantendo indipendenza e rimuovendo il vincolo di esclusività e fuoriuscendo dal comparto , si fa melina e ci si dimentica di tutto. Quello spirito di abnegazione e resilienza non c’è più. Siamo stanchi”.
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