Un fenomeno sempre più diffuso nel territorio della Marca.
“Molti operatori sono fuoriusciti dalle case di riposo per andare a lavorare come badanti nelle famiglie. Soprattutto dopo le difficoltà legate all’emergenza Covid hanno deciso di intraprendere un nuovo percorso, seguendo una sola persona. In questo senso c’è un ritorno verso il ruolo primario del prendersi cura. D’altro canto, il fenomeno si riflette sulle Rsa, sempre alla ricerca di personale qualificato”. Così Patrizia Manca, segretaria generale di Fisascat Cisl Treviso e Belluno.
Lo studio elaborato sui dati della Fondazione Leone Moressa e di Domina, l’associazione delle famiglie datori di lavoro domestico, evidenzia che oggi nella Marca Trevigiana operano 6.221 badanti (9,7 ogni cento anziani con più di 79 anni). E a queste si aggiungono 5.736 colf (6,5 ogni mille abitanti). Numeri in leggera, ma costante crescita. Il conto totale è inevitabilmente fatto per difetto. L’ultima sanatoria durante l’emergenza Covid, però, ha ridimensionato il volume del sommerso. L’età media è appena sotto ai 50 anni.
Molti lavoratori arrivano dall’Est Europa. Ma non solo. “Ci sono anche diversi italiani che scelgono di fare questo lavoro”, sottolinea Manca. “Soprattutto dopo la pensione, anche attorno ai 60 anni, più di qualcuno che ha lavorato nelle case di riposo si impegna come badante – aggiunge Giorgio Pavan, direttore dell’Israa Treviso e riferimento per il mondo delle Rsa -. Così come capita di vedere operatori che aggiungono al proprio lavoro dei turni di assistenza in famiglia o che si organizzano assieme a dei colleghi per offrire servizi assistenziali”.
È anche l’effetto dell’invecchiamento della popolazione. Oggi le persone con più di 65 anni residenti nel Trevigiano hanno superato quota 200mila. Vuol dire quasi 33mila in più rispetto a dieci anni fa. Gli over 80, in particolare, sono aumentati di quasi il 30%. Il cosiddetto volume d’affari relativo alla retribuzione dei lavoratori domestici cresce di pari passo: nel 2021 le famiglie trevigiane hanno speso qualcosa come 100 milioni di euro su questo fronte. “E proprio in questi giorni è in corso un braccio di ferro per la revisione del Contratto collettivo nazionale – sottolinea Alberto Irone, segretario generale di Filcams Cgil Treviso -. In tutto ciò le case di riposo sono in difficoltà”.
Non c’è un solo motivo, chiaro. Si tratta di una tempesta perfetta. La carenza di medici è sotto gli occhi di tutti. Mancano anche gli infermieri: ormai l’80% di quelli in servizio nelle strutture per anziani arriva da fuori Europa. Diversi centri sono già costretti a ricorrere alla libera professione. E ora si teme che finirà allo stesso modo con gli operatori. Basti pensare che almeno tre case di riposo della Marca stanno già valutando la possibilità di assumere personale generico, non formato, per poi pagare il corso di formazione come oss. È un estremo tentativo di fidelizzazione.
“Si sta assistendo anche a un massiccio arrivo di operatori dalle regioni del Sud Italia – aggiunge Pavan -. Un fenomeno nuovo con le dimensioni attuali rivela il direttore dell’Israa il problema di fondo, però, sta nel fatto che i nuovi corsi per oss stanno andando quasi deserti. Se non si trova una soluzione, anche individuando titoli equipollenti per chi arriva dall’estero, si rischia di arrivare al disastro nel giro di pochi anni”.
Perché è necessario guardare ancora una volta all’estero? “Perché negli ultimi anni qui nessuno ha valorizzato il lavoro di cura. E’ anche una questione di stipendio. A mio modo di vedere, una persona che fa l’operatore in casa di riposo per 36 o 38 ore a settimana non dovrebbe prendere meno di 1.600 euro al mese. Che vuol dire tra i 300 e i 400 euro in più rispetto a quanto prende oggi. Attualmente il sistema sociosanitario è come una corriera che sta correndo verso un fossato. Se non si correrà ai ripari, si andrà definitivamente fuori strada”.
Redazione Nurse Times
Fonte: Il Gazzettino
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