Rilanciamo l’intervista realizzata da Repubblica con Francesca Risi, medico che si appresta a dimettersi dall’ospedale Mauriziano.
Assunta durante il Covid, a marzo del 2021, confermata a tempo indeterminato a dicembre dello stesso anno. Fra pochi giorni manderà la lettera di dimissioni alla direzione amministrativa dell’ospedale Mauriziano di Torino, dove lavora. Tre mesi di preavviso e poi comincerà la sua vita da gettonista, da libera professionista pagata a turno, “venduta” da una società di somministrazione di servizi a un pronto soccorso che non trova medici. Francesca Risi ha solo 31 anni e si è specializzata in medicina d’urgenza nel 2020.
Dottoressa Risi, un anno e mezzo e via dalla sanità pubblica. Perché?
“Perché la vita in pronto soccorso è diventata insostenibile. E non dico qui al Mauriziano, dove peraltro si lavora molto bene in équipe, e abbiamo un’area rossa per i casi urgenti che alle Molinette, ad esempio, neppure c’è. La situazione è drammatica ovunque”.
Quanto si guadagna come gettonista?
“La cooperativa che ho contattato per conoscere le condizioni paga 960 euro per un turno di 12 ore. Lordi. Diciamo che il netto è sui 500 euro, forse qualcosa di più”.
Cosa c’è invece nella sua busta paga al pronto soccorso del Mauriziano?
“Tremila euro con 4 turni di notte al mese”.
Facciamo due conti?
“Li ho già fatti. Con otto giorni di lavoro al mese guadagno mille euro di più di quanto prendo qui. E ho del tempo per me, per la mia famiglia”.
Ha figli?
“Non ancora, ma sono sposata e mio marito è medico di medicina generale. A volte non riusciamo a vederci. Però non si pensi che la sola motivazione sia economica, e a nessuno piace l’idea di lavorare con collleghi sempre diversi, senza un progetto continuativo condiviso. La spinta più grande è la frustrazione che viviamo ogni giorno, nonostante la nostra scelta dopo la laurea in medicina sia stata di specializzarci in medicina d’urgenza e lo abbiamo fatto perché amiamo questa professione. Il problema è che la situazione è davvero diventata insostenibile. Abbiamo avuto giorni in cui le persone in attesa di ricovero sono arrivate a 100, più o meno come avere tre reparti in più da mandare avanti. Oltre al lavoro che dobbiamo fare per l’accoglienza dei pazienti che arrivano in pronto soccorso”.
Lei ha 31 anni, resistono gli “anziani” e i giovani mollano. Come lo spiega?
“È una questione di prospettive. Come si può pensare di avere anni e anni in condizioni del genere? Passato il Covid la situazione è ancora peggiorata. Peraltro noi urgentisti non abbiamo possibilità di andare a lavorare in un reparto, posso soltanto continuare a lavorare in un pronto soccorso”.
Quanti medici sono in turno di notte?
“Due, e dobbiamo seguire tutti i pazienti in barella oltre alle visite per gli accessi, mentre di giorno siamo quattro al mattino e cinque al pomeriggio. Fabio De Iaco, il presidente dell’emergenza e urgenza su Repubblica parlava degli spazi che mancano per far passare i carrelli del cibo al pronto soccorso. Noi quegli spazi li abbiamo, ma dobbiamo cambiare i pazienti in corridoio in barella senza alcuna privacy. Se fosse un mio parente sarei contenta? Certamente no, non lo sono neppure io che sono un medico”.
I famigliari possono entrare in pronto soccorso?
“Sì, qui da noi possono entrare dalle 16 alle 17”.
Se ci sono 40 barelle, c’è posto per 40 famigliari?
“Eh, diciamo che la situazione è un po’ caotica, ma è giusto che possano vedere i loro cari”.
Nessuna protesta?
“Eccome. D’altronde anche la comunicazione rischia di essere difficile se ogni giorno si sentono chiamare da una persona diversa che magari spiega la situazione in modo diverso. Quindi si arrabbiano: ‘Ieri mi hanno detto che…’. Non mi sento di dire che hanno torto. Ormai tutti si sono abituati a questa sitazione, ma i pazienti che hanno bisogno di essere ricoverati non dovrebbero essere qui ma in un reparto”.
Redazione Nurse Times
Fonte: la Repubblica
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