Questa la proposta avanzata dall’assessore alla Sanità della Provincia di Trento, Stefania Segnana, e dal direttore del servizio ospedaliero provinciale Pier Paolo Benetollo.
L’assessore alla Sanità della Provincia di Trento, Stefania Segnana, e il direttore del servizio ospedaliero provinciale Pier Paolo Benetollo hanno incontrato nell’ospedale Santa Maria del Carmine di Rovereto il direttore medico Michele Sommavilla e il primario del Pronto soccorso, Fabio Malalan.
L’incontro è stato organizzato all’indomani dei servizi che l’Adige ha dedicato alla situazione emergenziale del Pronto soccorso cittadino, dove sono rimasti solo sei medici di ruolo a fronte di una pianta organica che ne prevederebbe 14 e un piano giornaliero di lavoro che richiede sei medici di turno sulle 24 ore. Una condizione talmente grave da aver fatto prospettare da parte dei medici le “dimissioni in blocco”. Una prospettiva che ha costretto Segnana e Benetollo a precipitarsi al Santa Maria del Carmine per cercare di placare i malumori. Senza avere però, a conti fatti, nulla di concreto da offrire.
Stando a quanto riportato nel comunicato stampa diffuso al termine dell’incontro, l’assessore ha dichiarato di fronte ai medici: “Siamo consapevoli delle difficoltà dei pronto soccorso degli ospedali trentini, legate a una carenza di professionisti cronica e diffusa in tutta Italia. Stiamo davvero mettendo tutto il nostro impegno per dare respiro ai medici impegnati qui, come altrove, per consentire loro di usufruire dei periodi di riposo estivi, che saranno in ogni caso garantiti, e per individuare soluzioni nel breve, ma anche nel medio e lungo periodo”.
Per parte sua, Benetollo, che a Rovereto è stato direttore sanitario, ha ricordato alcune delle azioni intraprese finora, a partire “dalle graduatorie già approvate, con alcuni medici che prenderanno servizio in autunno”. Vi sono poi i tempi determinati, “con assunzioni anche di specializzandi rese possibili dalle norme emanate durante la pandemia, oltre che eventuali contratti di natura libero professionale”.
Ma è proprio nella formula dei “contratti di natura libero professionale” che i sindacati dei medici vedono ora la prospettiva più pericolosa. Perché di fatto quello che Provincia e Azienda sanitaria stanno per fare è inserire nei reparti personale mandato da cooperative esterne. O addirittura di esternalizzare in blocco alcuni reparti.
I “medici in affitto” sono del resto una realtà assodate in tante parti d’Italia. E Segnana ha ragione quando dice che il problema è nazionale. L’incompetente gestione degli accessi alle scuole di specialità negli ultimi anni ha creato questa situazione: a fronte dei previsti pensionamenti, non si sono formati sufficienti medici. Una colpa che investe tutti i livelli della gestione sanitaria, locale e nazionale, degli ultimi 15 anni. Ma non è solo questo.
“Per me e i miei colleghi di università, dopo la laurea, l’aspirazione era di entrare nel servizio pubblico – spiega Sonia Brugnara, oncologa al Santa Chiara di Trento e segretario provinciale del Cimo, il sindacato dei medici –. Ora non è più così”. I giovani neolaureati rifuggono in massa il lavoro nel pubblico, e i medici specialisti non vogliono lavorare nei pronto soccorso. “È un lavoro considerato ad alto rischio – spiega Brugnara –, fatto di turni insostenibili, di denunce, aggressioni e stress lavoro-correlato, senza tempo da dedicare a se stessi o alla famiglia, a fronte di uno stipendio non commisurato al carico di lavoro e dell’impossibilità di esercitare la libera professione e fare carriera”.
In questo scenario, la “vocazione” lascia presto il passo al “chi me lo fa fare”. Prova ne è la mancata assegnazione, sottolineano dal Cimo, di oltre 600 borse di specializzazione in medicina d’emergenza-urgenza in tutta Italia: i giovani preferiscono percorrere altre strade, ma questo significa che la crisi non si risolverà nemmeno nei prossimi anni.
Ma la proposta di rivolgersi alle cooperative di “medici in affitto”, avanzata dall’Apss non trova comunque d’accordo i sindacati, Cimo in testa. Se è pur vero che il ricorso a medici esterni è ormai molto diffuso negli ospedali italiani, pena in molti casi la chiusura dei presidi – in Veneto 18 pronto soccorso su 24 si affidano a medici esterni, solo per fare un esempio -, i sindacati mettono in guardia sui rischi legati a questa deriva. “Un medico del servizio pubblico – spiega Brugnara – deve essere specializzato e viene selezionato con attenzione attraverso procedure trasparenti, che ne verificano le capacità. Un medico che lavora a partita Iva per una società privata, o che è socio di una cooperativa, no”.
“Un dermatologo potrebbe ritrovarsi a dover intubare i pazienti – scriveva nel marzo scorso il Cimo -. Un otorinolaringoiatra a rianimarli. Un medico non specializzato a occuparsi della ventilazione non invasiva. Un ginecologo dei traumi da incidente stradale. Non è assistenza sanitaria di guerra, ma quello in cui qualsiasi cittadino italiano potrebbe imbattersi recandosi in uno dei tanti pronto soccorso che si sono affidati a cooperative, medici non specializzati e libero-professionisti per far fronte alla carenza di medici di emergenza-urgenza”.
Ma quindi che fare? “Le risorse che l’Apss intende investire per assumere medici a tempo – argomenta Bruganra –, che peraltro costano ben di più dei medici dipendenti, siano invece dirottati sul personale già in servizio, e proposti a compensazione di ulteriori ore di servizio oltre quelle da contratto. Sarebbe una soluzione tampone capace però di garantire la qualità del servizio medico nell’attesa dei nuovi specializzati”.
Redazione Nurse Times
Fonte: l’Adige.it
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