Episodi della Resistenza all’Ospedale di Vercelli
Si è parlato molto poco, in verità, dell’importantissimo ruolo svolto dalle infermiere durante la Resistenza. Quando un ferito veniva medicato, su in montagna, fra i partigiani, non si pensava che un pezzo di garza, il disinfettante, una siringa erano costati alle infermiere che li avevano procurati grossi rischi e tanto sacrificio.
Certamente allora, giustamente, non ci si soffermava sulle persone singole, sui nomi, tutti si concorreva alla causa comune, tuttavia, poiché prima di raggiungere in montagna le formazioni partigiane operai in collaborazione con loro e fui testimone della loro opera, vorrei ricordare, attraverso la mia esperienza, quelle donne coraggiose, preziosissime.
Dopo l’8 settembre 1943, i nazisti erano subentrati ai soldati italiani nella custodia dei prigionieri alleati (nel Vercellese si trattava, per lo più, di americani e australiani), cui non furono risparmiate violenze, anche atroci.
Durante la Resistenza, fra i compiti degli antifascisti, in città e nei paesi, vi era anche quello di preparare e consentire la fuga dei militari stranieri. Non era compito facile, data la rigorosa sorveglianza cui erano sottoposti nei campi di lavoro, tuttavia, azioni del genere riuscivano anche abbastanza spesso.
Gli “evasi” venivano provvisoriamente rifugiati presso l’Ospedale Maggiore di Vercelli, dove le infermiere avevano dato vita ad una eccellente organizzazione clandestina a questo scopo. Quando l’ospedale diventava un rifugio poco sicuro, si provvedeva al trasferimento dei prigionieri presso le formazioni partigiane che si andavano costituendo.
Io ero fra quelle impegnate, appunto, in tali trasferimenti; più esattamente, dovevo farli uscire dall’ospedale in abiti borghesi, come se si trattasse di cittadini vercellesi e, attraversando la città, condurli nel bosco del “Vola”, sulle rive della Sesia, dove si aggregavano a militari italiani fuggiaschi, dirigendosi quindi verso le montagne.
Una mattina, mi recai come di consueto all’accettazione dell’ospedale, dove Maria Fracassi Pastore, che era l’infermiera addetta allo smistamento dei militari per e dall’ospedale, mi disse ciò che avrei dovuto fare.
Incontrai, quindi, altre due infermiere, Zaira e Irene Cafasso, le quali, preoccupate, mi informarono che i tedeschi avrebbero effettuato una perquisizione il giorno successivo: era urgente trasferire due militari australiani nascosti in ospedale.
In realtà, gli australiani rifugiati nell’ospedale erano tre, ma George Caldwel, un ragazzo di vent’anni affetto da reumatismo al cuore e molto grave, era praticamente intrasportabile. Da quindici giorni attendevamo un miglioramento che ci consentisse di portarlo via, ma le sue condizioni continuavano a peggiorare. Anche i tedeschi sapevano che era impossibile muoverlo: perciò non era nemmeno sorvegliato. Andavo a trovarlo spesso, vestita da infermiera feci la stessa cosa anche quel giorno e fu straziante sentire le sue preghiere affinché lo portassi via; lo calmai con una bugia pietosa. Pochi giorni dopo morì.
Quando raggiunsi gli altri due australiani, in una minuscola stanzetta, mi sentii svenire: erano in abiti borghesi, certo, ma i vestiti che le infermiere erano riuscite a reperire erano assolutamente inadatti, specialmente per uno di loro. Era alto un metro e novanta circa e i pantaloni e la camicia gli andavano ridicolmente corti e stretti; impossibile non notare che era straniero!
L’idea di portarli fuori, per le vie della città, mi paralizzava, ma non c’era scelta, li avrebbero presi certamente se non avessi tentato.
La condizione essenziale, come al solito, era che mi seguissero sempre, che non parlassero mai e che non facessero alcun gesto che potesse tradire la loro identità.
Uscimmo dall’ospedale e non facemmo brutti incontri fino ai giardini in piazza del Duomo dove vedemmo avanzare, sulla sinistra, tre soldati tedeschi.
I due australiani si bloccarono di colpo, fortunatamente ebbi la prontezza di spirito di prenderli sottobraccio fingendo di scherzare come se niente fosse: i tre soldati non notarono lo strano abbigliamento di uno dei miei compagni e potemmo oltrepassare il passaggio a livello del rione Isola, l’incubo era finito. Accompagnai i due nel bosco del “Vola” e tornai subito all’ospedale dove mi aspettava Teresa Roncarolo (Gina), per un altro compito.
Verso le 12.30 avrei, infatti, dovuto recarmi nella stanzetta in cui era ricoverato un militare italiano fuggito da una tradotta mentre il convoglio transitava sulla Sesia. Attraverso un finestrino rotto era saltato sul ponte e si era buttato nel fiume; purtroppo i tedeschi lo avevano visto e gli avevano sparato, ferendolo alle ginocchia: trasportato all’ospedale era stato operato, le conseguenze degli spari, però, lo avevano costretto all’immobilità.
Lo sorvegliava un militare austriaco che alle 12.30 andava a mangiare in un’altra stanza con i suoi commilitoni.
La guardia, che aveva circa 45 anni, si era confidata con Gina dicendole che quel ragazzo gli ricordava suo figlio, anche lui militare e Gina aveva organizzato tutto, io non dovevo sapere niente di più di quello che avrei dovuto fare.
Gina stessa mi aiutò a calare il ferito attraverso la finestra fino al piano rialzato, quindi, da sola, lo trasportai, attraverso il cortile, fino alla camera mortuaria dove sapevo di trovare un carretto della biancheria: sarebbe servito a nascondere il ferito per portarlo fuori dall’ospedale.
Lì finiva il mio compito: il militare sarebbe stato condotto a casa di qualcuno che l’avrebbe curato con il prezioso aiuto dei medici che collaboravano con la Resistenza.
Di Bianca Grasso
Fonte: Istituto per la storia della Resistenza e della società contemporanea nelle province di Biella e Vercelli.
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