Intervista a Filippo, infermiere nei posti più difficili del mondo

Si chiama Filippo Gatti ed è un infermiere bergamasco che, a un certo punto della sua vita

Si chiama Filippo Gatti ed è un infermiere bergamasco che, a un certo punto della sua vita, ha deciso di mollare il suo posto fisso in ospedale per dedicarsi totalmente alle missioni umanitarie. “Ho sentito la necessità di mettermi in gioco in qualcosa di più grande, lontano dalle dinamiche della sanità italiana” ci ha detto in un’intervista esclusiva.

Da allora, al grido di “questa è la mia vita ed io voglio viverla con la banale e infantile illusione di essere utile al prossimo”, collaborando con la Croce Rossa Internazionale e con Emergency, ha prestato la sua opera in Sudan, Sierra Leone e Afghanistan. Tra miseria, guerre e tante difficoltà. Per aiutare le persone e… tanti bambini.

Quand’è che in Filippo Gatti è maturata la scelta di diventare un infermiere? Parlaci in breve di cosa ti ha portato a diventare un professionista dell’assistenza.

“Già durante il liceo avevo sentito parlare di ‘Medici Senza Frontiere’, così mi era venuta voglia di intraprendere il mio percorso di studi successivo in ambito sanitario. Il primo passo fu quello di tentare il test per entrare alla facoltà di medicina; ma, non riuscendoci, optai per la facoltà di farmacologia, con la speranza di passare poi a medicina l’anno successivo e tenere buoni gli esami fatti.

Iniziai e durante il primo anno di frequentazione presso l’Università Statale di Milano, ho seguito un corso di approfondimento/aggiornamento (interno all’università) sulle lauree triennali e tra queste veniva presentata quella di Infermieristica (che era stata istitituita proprio in quel periodo – DM 509/1999 – e che avrebbe avuto un nuovo percorso di studi a partire da settembre 2000).

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Da li cominciai a informarmi di piu’ su questa professione a me quasi sconosciuta (anche solo per il fatto che non ero mai – ma proprio mai – stato in ospedale per problemi di salute personale, se non per quelli invece di alcuni familiari). Lo stesso anno decisi di interrompere il piano di studi presso farmacologia e di partecipare al test di ammissione per la laurea in Infermieristica. Passai il test ed ebbi anche la fortuna che Bergamo fosse associata all’Università statale di Milano, come sede distaccata, cosi da poter seguire tutte le lezioni senza fare il pendolare tra Bergamo e Milano e avendo come sede di tirocinio gli Ospedali Riuniti di Bergamo (ora Ospedale Papa Giovanni XXIII). Una volta iniziato il corso di studi, le materie e la professione infermieristica in sè mihanno sempre piu appassionato, tanto da portarmi alla laurea in Infermieristica il 13 Novembre 2003”.

Dopo la laurea, nonostante lavorassi stabilmente nella terapia intensiva pediatrica dell’ospedale di Bergamo… hai preso un bel Master in Medicina Tropicale e Salute Internazionale, ti sei messo in aspettativa e hai deciso di ‘scappare’ dall’Italia; per prestare la tua opera in posti decisamente difficili. Posti dove la miseria e le difficoltà sono delle inseparabili compagne… Perché?

Dopo diversi anni passati nello stesso posto lavorativo, la Terapia Intensiva Pediatrica, che però porto sempre nel cuore, ho sentito la necessità di mettermi in gioco in qualcosa di più grande, lontano dalle dinamiche della sanità italiana. Credo, infatti, che si debbano mettere a disposizione le proprie conoscenze per non farne un tesoro esclusivo. Ho iniziato quindi con l’iscrivermi ad un Master in Medicina Tropicale e Salute Internazionale presso l’Università di Brescia e così mi sono avvicinato al mondo della cooperazione nei paesi in via di sviluppo (PVS), acquisendo le nozioni principali in tema di epidemiologia, aspetti clinici e controllo delle patologie tropicali e più in generale cercando di analizzare le diverse problematiche presenti nei Paesi a basso tenore di vita.

Durante la frequenza del suddetto corso ho cominciato anche a chiedermi più seriamente: ma sono solo quelle in Italia le persone che hanno bisogno del mio ‘lavoro’? Ho studiato con passione…  per aiutare solo loro? A chi sono utile io, come infermiere, in questo sistema, in questo paese di Grande Fratello, Isola dei Famosi, Maria de Filippi, Sanremo, Paparazzi, Modelle, Calciatori? Domande pericolose, domande che ti portano a prendere strade che portano lontano.

Molte persone, amici o semplici conoscenti, mi hanno spesso chiesto perché ho fatto questa scelta di vita non certo semplice. Difficile rispondere. Ho provato a pensarci. Ovviamente non esiste una sola motivazione, una sola risposta. Forse bisogna partire dall’inizio, dal desiderio che mi ha spinto ad essere infermiere prima ed a specializzarmi in medicina tropicale, salute internazionale e disaster management poi. Il desiderio: essere utile alle persone che ne hanno bisogno. Banale? Illusorio? Infantile? Sì, sì… banale, illusorio ed anche infantile; ma questa è la mia vita, ed io voglio viverla con la banale e infantile illusione di essere utile al prossimo. Essere utile con le mie conoscenze; essere utile con le mie mani mosse dalla testa; essere utile con le mie parole quando testa e mani non hanno più nessun potere sulla malattia. Ecco, questo era il progetto iniziale.

Certo, decidere di partire non è stata e tuttora non è una cosa semplice: significa decidere di lasciare la propria vita per almeno sei mesi (se non 12) e trascorrere questo tempo nella sola occupazione di infermiere. Significa lasciare a casa la famiglia, gli amici, il lavoro, gli affetti. Significa scegliere di fare parte di qualcosa che solo parzialmente darà benefici e vantaggi individuali. Significa essere consapevoli di essere criticati e criticabili, a volte sostenuti ma spesso incompresi. Significa lavorare in sicurezza ma essere consapevoli di essere a volte al centro di una guerra che per definizione risulta imprevedibile e di conseguenza capace di sorprendere negativamente e repentinamente.

Non è mia intenzione vantarmi e pavoneggiarmi per la scelta da me fatta, semplicemente illustrarvi come cambia la vita di chi ha scelto di fare parte di progetti (di Emergency o della Croce Rossa Internazionale) il cui fine è quello di garantire un’assistenza sanitaria gratuita e di qualità in quei posti nel mondo dove tutto ciò non sembra possibile”.

Parlaci delle tue esperienze nei teatri di guerra come Afghanistan, Sudan e Sierra Leone… descrivendoci, se puoi, qualche emozione e/o ricordo particolarmente forte che ti è rimasto di quelle terre.

“La mia prima missione risale al 2006 in Afghanistan (con Emergency), paese dove torno sempre con estrema gioia. In quella prima missione io ero il responsabile, in qualità di ‘field nurse’, di varie cliniche sparse nelle zone rurali della valle del Panjshir, a nord di Kabul. Insieme al mio infermiere locale dovevo, secondo un calendario prestabilito, visitarle per di assistere il personale locale nella visita, nella diagnosi e nel trattamento delle principali patologie mediche e chirurgiche (sia pediatriche sia adulte); nella gestione del personale locale e dei turni. Oltre a questo mi occupavo della formazione sanitaria del personale locale, della logistica e della manutenzione ordinaria e straordinaria delle strutture, gestendo anche l’approvvigionamento mensile di farmaci e di suppellettili necessari allo svolgimento delle attività sanitarie. Una volta rientrato in ospedale, mi rendevo disponibile ad aiutare gli altri due infermieri dello staff internazionale nella gestione delle attività dell’ospedale chirurgico di Anabah (sempre in Panjshir), facendo anche turni di ‘guardia’ notturna (le cosiddette ‘on call’). Devo dire che i sei mesi di missione sono volati… e che quella parte dell’Afghanistan era la più bella, la più sconosciuta, quella mai raccontata dai TG, quella senza carri armati e forze militari, quella dove la guerra sembrava non esistere… ma la guerra c’era anche lì… ce lo ricordavano i pazienti (soprattutto bambini) che venivano portati in ospedale perché saltati sopra alle mine o agli ordigni bellici inesplosi accidentalmente raccolti o calpestati mentre giocavano o pascolavano le greggi di pecore lungo le rive del fiume o sulle montagne lì attorno.

La seconda missione nel 2007 è stata in Sierra Leone, a Goderic, alla periferia di Freetown, in un centro chirurgico destinato alle vittime di guerra successivamente ampliato alla cura dei pazienti ortopedici e di tutte le emergenze chirurgiche. La mia attività, lì, era di responsabile del pronto soccorso pediatrico e del reperto di pediatria. Mi occupavo del triage e della gestione e “smistamento” dei pazienti del pronto soccorso, della gestione del reparto, aiutando gli infermieri locali nell’assistenza diretta, facendo formazione con lezioni e training sulla gestione del paziente critico/pediatrico. Vista la grande presenza di malnutriti, ho implementato un programma nutrizionale già presente con il supporto del WFP (World Food Program), ho creato spazi dedicati al training delle mamme sull’igiene, sull’alimentazione, sulla prevenzione della malaria e delle malattie più comuni.

Il mio ritorno in Afghanistan è stato poi nel 2009 e mi ha visto impegnato di nuovo come ‘field nurse’, ma stavolta ai ‘First Aid Post’ del Panjshir si sono aggiunti quelli alla periferia di Kabul, nelle carceri e nei due orfanotrofi (maschile e femminile): in totale erano 34 cliniche. Anche qui l’esperienza è stata davvero molto bella, ma toccante allo stesso tempo; per diversi aspetti. Agli orrori già noti e ai risultati della guerra sulla popolazione civile, ho anche assistito alle condizioni dei carcerati Afghani: alcuni lì senza un regolare processo, alcuni senza sapere per quanto ci dovranno restare, alcuni ‘dimenticati’ nelle carceri, ammassati e in condizioni quasi disumane e disagiate

(la grande prigione di Pol-e-Charki fatta per contenere 5000 detenuti ne contiene ad oggi circa 8500). Per non parlare della tenerezza che mi hanno fatto i bambini (circa 600) dei due orfanotrofi: sono esperienze che non possono non toccarti o cambiarti la vita. Esperienze che temprano ogni giorno di più.

Nel 2011 sono tornato di nuovo come ‘pediatric nurse’ in Sierra Leone, svolgendo le stesse attività della precedente missione.

Nel 2012 una nuova missione, in Sudan (più precisamente a Port Sudan – capitale dello Stato del mar Rosso) in un centro pediatrico. Il centro disponeva di 3 ambulatori, un reparto di degenza con 14 posti letto, una corsia di terapia sub-intensiva con 4 posti letto, una farmacia, spazi per gli esami diagnostici e spazi di servizio. Vedevo una sessantina di bambini tutti i giorni in pronto soccorso, in qualità di infermiere, assistendo il Pediatra nelle visite e poi quelli ammessi in reparto.

Nel 2013 una nuova missione in Afghanistan, ma stavolta a LashkarGah, nel sud del paese, presso il centro chirurgico di guerra. Qui la guerra era, ed è tutt’ora, ancora attiva e i feriti arrivavano uno dietro l’altro, se non in massa, dopo attacchi terroristici in città o nei villaggi vicini. Tralascio di raccontare le migliaia di vittime a cui ho visto le gambe  e le braccia traumaticamente amputate dalle mine o dai colpi di mortaio. Alcune di queste immagini tornano a volte ancora nei miei sogni notturni. Peccato che sogni non sono, ma, anzi, c’è ancora gente che ogni minuto, ogni ora, perde un arto, se non la vita stessa, in Afghanistan.

Nel 2013-14 in Sud Sudan, come infermiere pediatrico nel villaggio di Malakal, conosciuto di lì a poco, per essere stato, come tanti altri luoghi in Sud Sudan, lo scenario di brutali attacchi e uccisioni dei ribelli dopo il colpo di stato del dicembre 2013.

Nel 2015 impegnato in un centro di chirurgia ricostruttiva per le vittime Siriane in Libano, a Tripoli.

Nel 2016 di nuovo in Afghanistan, a Kandahar.

L’attività, in missione, si articola lungo tutto l’arco della giornata: come per tutti quelli che fanno questo ‘mestiere umanitario’, non ci sono orari, non si ‘timbra il cartellino’, non si guarda l’orologio e a volte si viene chiamati anche la notte per casi particolari e per cui il personale sanitario locale ha bisogno di assistenza. Raccontata così può sembrare una vita dura, certo. Ma essere operatori umanitari non è che questo: l’unione di tante persone che credono nell’eguaglianza di tutti gli esseri umani e si adoperano per costruire un mondo di pace. E la sfida principale è proprio questa: devi saperti adattare ogni volta, dato che si cambia sempre paese, tipo di progetti, collaboratori… Questo influisce sia sul lavoro che sulla vita personale: ci vuole dinamismo, adattabilità, serietà, molto impegno e… passione”.

Nel 2012, al rientro dall’ennesima missione, hai deciso di dimetterti dall’ospedale di Bergamo per dedicarti totalmente alle missioni all’estero. Immagino lo sgomento tra i tuoi colleghi e nella tua famiglia…

Diciamo che alcuni dei colleghi avevano capito che l’Italia ‘mi stava stretta’ e mi hanno anche appoggiato, nelle mie scelte. In famiglia ci sono state (ovvie) preoccupazioni sia sul mio futuro professionale sia sulla mia sicurezza, sapendomi al lavoro in posti lontano da casa e quasi sempre martoriati dalla guerra. Ma devo dire che ho sempre ricevuto molta ammirazione e sostegno in queste mie scelte”.

Stai rispondendo alle mie domande dall’Afghanistan, dove sei tornato a fine novembre. In cosa consiste la tua attività laggiù?

“Sì, in questo momento sto lavorando in un progetto che si chiama ‘War Wounded Assistance Perogramme e che si occupa di:

  • provvedere al training di ‘First Aiders’ in tutto il territorio della regione a sud dell’Afghanistan (che comprende le province di Kandahar, Helmand, Urozgan e Zabul);
  • fornire Medical Kit (kit di medicinali e materiale per gestire il primo soccorso dei feriti) alle varie cliniche distrettuali del sud dell’Afghanistan;
  • assicurare che il ‘First Aid’ ai feriti (sia alle forze governative sia ai talebani) sia adeguato;
  • trasportare i feriti, dopo la stabilizazione, presso ospedali e centri di salute che possano dare un ‘buon’ livello di cure, attraverso un sistema di taxi/ambulanze.

Nel sud dell’Afghanistan le tre strutture considerate capaci di erogare un’assistenza adeguata e d’eccellenza sono l’ospedale Mirwais di Kandahar (supportato dalla Croce Rossa Internazionale), l’ospedale provinciale di LashkarGah in Helmand (supportato da MsF) e l’ospedale di chirurgia di Guerra di Emergency (ONG Italiana fondata da Gino Strada)”.

Ci sono stati momenti in cui, nelle tue missioni… hai avuto veramente paura?

“Il pericolo è sempre dietro l’angolo, in missioni di questo tipo… anche quando le misure di sicurezza sembrano massime. Ovviamente all’inizio delle mie missioni il livello di paura era abbastanza alto, ma poi ho imparato a conviverci e a farci l’abitudine. Quando sentivo gli spari o le esplosioni in Afghanistan, all’inizio temevo anche per la mia incolumità… ma poi quando ti concentri sul tuo lavoro, sui pazienti, tutto va nel dimenticatoio.. tutto passa in secondo piano. O meglio, le esplosioni e i colpi di mitragliatrice diventano come la campanella di allarme dei vigili del fuoco che sembra urlare: ‘tutti ai posti di combattimento, si comincia!’… e ci si prepara per la ‘Mass Casualty’, si aprono le tende, si preparano materassi, coperte… e tutto il materiale per gestire l’imminente massiccio afflusso di feriti (che a volte in Afghanistan erano anche 90 tutti insieme).

Le priorità non sono piu la sicurezza personale (che tuttavia è importante) ma sono i feriti, le persone che hanno bisogno di cure immediate. L’adrenalina è alle stelle, in quei momenti, ma anche la professionalità e la precisione nel coordinare e nel gestire l’arrivo dei feriti.

In alcune situazioni però la paura si è fatta sentire di nuovo, come in Sud Sudan durante i combattimenti del coplo di stato del dicembre 2013. Mentre lavoravamo all’interno dell’ospedale c’erano proiettili che volavano sulle nostre teste, sopra la maxi tenda del triage dove avevamo 180 feriti da curare… e ben 5 persone sono state uccise dai cosiddetti ‘stray bullets’, proiettili vaganti. O quando i ribelli sono entrati nell’ospedale di Malakal uccidendo ben 10 pazienti nei loro letti, solo perchè appartenenti alla tribu’ del presidente in carica. O quando, subito dopo, entrarono nel blocco operatorio chiedendo chi stessimo operando, minacciandoci con kalashnikov (AK47) e volendo verificare che non stessimo operando militari delle forze governative. Credo che in quell’occasione il fatto che stessimo operando due civili ci salvò la vita… Ma in quei momenti l’adrenalina e la tensione sono così alte che non ci pensi, reagisci pensando che ‘sei li per curare tutti’, non solo per una categoria di feriti. Poi quando la sera fai il ‘debriefing’ della giornata ti rendi conto che ti saresti potuto ritrovare in una cassa di legno, in volo per l’Italia”.

Per concludere… Chi è, l’infermiere, nei posti dove hai svolto e svolgi le tue missioni? E… chi è, invece, l’infermiere in Italia?

“La figura dell’infermiere, in contesti umanitari, è ben diversa da quella cui siamo abituati… soprattutto in Italia. Il ruolo dell’infermiere è molto più valorizzato. A parte il fatto che il lavoro in equipe esiste veramente e non solo tra professionisti dello stesso livello. Certo, ognuno concorre e gioca il suo ruolo all’interno del team, pur differenziato nelle proprie conoscenze e competenze. Sfatiamo il mito che l’infermiere in missioni umanitarie fa il chirurgo o il medico. L’infermiere fa l’infermiere! Ma come in altri paesi, tra cui l’Inghilterra, nelle missioni in cui mi sono trovato a lavorare, l’infermiere è la figura di riferimento per ogni figura professionale, dal chirurgo, al pediatra, al fisioterapista…

Come infermiere in ospedale ovviamente sono sempre presente e faccio spesso da tramite anche tra le diverse figure professionali. Il giro visita senza l’infermiere di riferimento del paziente non viene effettuato, i medici aspettano e si rivolgono a noi per qualsiasi richiesta. Ogni figura professionale coinvolta deve essere d’accordo sul programma di cure e sulla dimissione e, in caso contrario, lo si discute professionalmente. C’è molta possibilità di confronto, di scambio di pareri e conoscenze. E questa è una gran bella soddisfazione e una spinta a lavorare in serenità, ve lo assicuro.

Credo, infatti che se non avessi scelto di fare questa vita di missione, avrei lasciato comunque l’Italia verso altri lidi dove la professione infermieristica è valorizzata per quello che è. In Italia si formano eccellenti infermieri che però,  quasi mai per scelta, sono costretti a trasferirsi in paesi del nord Europa per lavorare.  Dispiace dirlo, ma purtroppo in Italia la parola ‘Infermiere’ è ancora vista con molti stereotipi, la professione è sottostimata a ruolo subordinato e non ci sono spiragli di crescita professionale.

La cara e defunta Florence Nightingale si starà già rivoltando nella tomba, nel vedere che quello che lei ha creato e racchiuso nella parola ‘nursing’ insieme al soddisfacimento dei famosi ‘bisogni del paziente’. La valutazione, pianificazione, implementazione del processo di cure al paziente si sono ridotte talvolta a ruolo di ‘mero esecutore’ di ordini medici. Purtroppo sta anche a noi professionisti far sentire le nostre ragioni, perché troppo spesso in Italia l’infermiere, piuttosto che scegliere di gestire a pieno e con professionalità tutto quello che è il processo di nursing, preferisce accontentarsi di un ruolo con meno responsabilità (il ‘mero esecutore’, per l’appunto) con la convinzione che sia un ruolo più sicuro, meno rischioso e forse anche meno intellettualmente laborioso. Ma se vogliamo evolvere, l’unica cosa da fare è mettersi in gioco… al 100%. E dimostrare che siamo professionisti veri!”

Grazie di cuore per il tuo tempo e per averci raccontato di te, Filippo… infermiere errante che curi, con sacrificio e passione, le ferite aperte di questo mondo.

Alessio Biondino

Foto: Facebook

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