Il declino della professione infermieristica in Italia è un dato di fatto inconfutabile. Ecco le interessanti riflessioni che ci ha inviato Martina Benedetti.
Dopo i preoccupanti dati sulle domande di inscrizione al corso di laurea in Scienze infermieristiche, l’argomento della non attrattività della professione tiene banco sulle testate giornalistiche. La previsione futura sul fabbisogno di infermieri sarà di circa 60mila unità, che ad oggi mancano, e di fronte all’inesistenza di politiche a lungo termine i decisori conteranno di estrarli da un cilindro magico o accetteranno di avere sulla coscienza molte morti, prevedibili, dovute all’assenza futura di presa in carico assistenziale.
La domanda è: i giovani vogliono ancora fare gli infermieri in questo Paese? La risposta è no. Questo lo testimonia la percentuale di calo delle iscrizioni per l’anno accademico 2023-2024 esattamente del -10,5%. La considerazione è: come biasimarli? Questo disastro, già annunciato da tempo ed esacerbato dalla pandemia, è solo la punta di un iceberg dalle dimensioni colossali. Con questo iceberg la “nave del Ssn” si è già scontrata da tempo. Adesso siamo nella condizione in cui l’acqua sta iniziando a salire in modo impietoso verso l’alto, portando al naufragio.
La professione infermieristica non è più attrattiva, ed è un dato di fatto. Il 36% degli infermieri dichiara di voler lasciare il luogo di lavoro e, di questi, il 33% di voler lasciare addirittura la professione.
Le “promesse pandemiche” di mettere al centro la sanità pubblica si sono rivelate specchietti per le allodole e quest’ultima, allo stato attuale delle cose, si sta letteralmente sgretolando. Ad oggi sempre più infermieri, soprattutto nel Nord del Paese, stanno abbandonando la sanità pubblica, rassegnando le dimissioni dalle aziende sanitarie per decidere di lavorare in autonomia.
Penso che, così come un capitano deve prendere atto di un naufragio, anche un dirigente aziendale debba farlo verso il Ssn. A questo punto sorge spontaneo chiedersi: quanto, in questi anni, i dirigenti delle professioni sanitarie hanno tutelato il personale infermieristico che lavora nella sanità pubblica? Quanti si sono presi cura, con tutti gli strumenti necessari, del clima interno?
Attualmente molti professionisti appartenenti al mondo del coordinamento delle professioni sanitarie stanno denunciando pubblicamente le problematiche più evidenti. Mi chiedo quante volte abbiano ripetuto al personale, insoddisfatto, la frase “dipende dalle politiche aziendali”, davanti, ad esempio, alla carenza di organico, giustificando tutte quelle mancanze oggettive che sono diventate troppo grandi persino di fronte agli obiettivi di budget, che comportano il risparmio sulla spesa del personale.
Pensate, nella pratica, a quante volte è stata ignorata la vostra predilezione per un reparto e siete stati dirottati a “tappare buchi”. Questo, nonostante la vostra formazione specifica post-base in un’area clinica di competenza. I nostri Ordini professionali inneggiano alle competenze specialistiche, ma nelle realtà aziendali vi è la “aggregazione modulare delle unità operative”. Questo per renderci delle unità interscambiabili. Uno vale uno, a discapito dei titoli di studio e delle attitudini personali.
Abbiamo ormai appurato che il sistema del libero mercato, applicato alla sanità pubblica, è fallimentare. Se lavori come posizione organizzativa dentro un sistema che non funziona, con logiche aziendali svilenti e sbagliate nei confronti del personale, non sei forse in parte (anche minima) un responsabile diretto dell’esodo? Un esodo che sta comportando, come abbiamo già visto, la non sostenibilità del sistema sanitario.
Le “colpe” primarie sono sicuramente legate alle cattive politiche sanitarie nazionali (tagli, investimenti sbagliati etc.), ma anche alle politiche delle singole aziende nei riguardi del personale. Un trattamento del personale sanitario, da parte delle direzioni sanitarie, privo di lungimiranza. Nelle piccole realtà le amicizie e le interferenze politiche si sono tradotte in decisioni non trasparenti verso il personale. Questo non rende decisamente attrattiva una professione.
La poca lungimiranza si legge nella politica di “sfruttamento del professionista”, che sta emergendo sotto forma di “abbandono professionale”. Senza forza lavoro sanitaria e assistenziale, non vi è salute, e la direzione intrapresa, ovvero quella dei sotto-investimenti, degli squilibri tra domanda ed offerta, delle cattive condizioni di lavoro, non può continuare, perché non è più sostenibile. Le aziende sanitarie non hanno investito abbastanza e in modo strategico in istruzione, formazione permanente e mantenimento del benessere degli operatori. Ed è un dato di fatto.
Se una posizione organizzativa si pone inoltre come “altro” dal professionista sanitario, viene a mancare quel rapporto di fiducia che il lavoratore ha con l’azienda stessa, e questo è un atteggiamento frequente. Mi sono sempre chiesta perché, nei riguardi di una tematica universale come la salute, in un Ssn che è ancora pubblico, accessibile e universale, tutto il personale aziendale non possa muoversi all’unisono.
Mi è capitato, personalmente, di sentir pronunciare la frase “non posso dirvi di più perché sono dall’altra parte”. Questo di fronte a una domanda di approfondimento nei confronti di una disposizione aziendale. In realtà un’azienda sanitaria dovrebbe essere composta da persone che lavorano per l’utenza, ovvero un paziente con bisogni di educazione, cura e assistenza. Quindi tutte le figure giocano dalla stessa parte.
Frustrante è inoltre che tutte le problematiche che affliggono il mondo sanitario e i professionisti della sanità siano quotidianamente denunciate da operatori, sindacati, ordini professionali. E poi? Pare non voglia esserci del reale impegno nel risolverle. Ci si chiede, a questo punto, se l’esodo dal Ssn sia voluto o se l’adagiarsi su cattive politiche aziendali nei confronti del personale sia usanza ormai radicata.
Gli infermieri, dopotutto, sono il prodotto di anni e anni di demansionamento e sfruttamento, spesso, tollerato dagli infermieri stessi. Personalmente ho sempre avuto un atteggiamento critico nei confronti di questa professione, una professione che amo. Il consiglio che mi viene puntualmente dato è quello di elogiarne anche il bello. Se dovessi fare un elogio alla parte umana del lavoro, scriverei un trattato intero, ma per quanto riguarda l’aspetto professionale non sono abituata a dire bugie, e la figura per la quale uno studente investe attualmente in Italia non esiste.
Quella infermieristica è una professione potenzialmente meravigliosa, ma manca il coraggio di riempire un grande vuoto. Questo gap culturale, sociale, professionale si percepisce non appena il professionista mette piede nel mondo lavorativo o in quello accademico. Si crea uno strappo interiore tra ciò che sai di essere e ciò che non ti permettono di essere, che uccide il senso della professione stessa.
Questo articolo vuole essere una fonte di riflessione verso un mondo aziendale della sanità pubblica che, è molto chiaro, non sta funzionando. Molte persone all’apice delle dirigenze infermieristiche, purtroppo, sono cresciute “dietro le vesti” di altri professionisti, ma è necessario “tagliare il cordone” per permettere alla professione di diventare autonoma e forte. Questo, ovviamente, non in ottica divisiva, ma in ottica di crescita. È inoltre fortemente necessario che le influenze politiche nei riguardi degli attori delle aziende sanitarie pubbliche cessino, per poter acquisire credibilità agli occhi del mondo. Una credibilità meritocratica.
Ad oggi percepisco vertici professionali tanto pavidi nella tutela dei suoi professionisti quanto accomodanti verso quelle politiche sanitarie sbagliate che ci hanno spinto dentro il baratro. Sono spesso gli stessi “personaggi” che, mentre alle conferenze lodano l’introduzione delle competenze avanzate, nelle corsie si piegano al diktat del personale che deve coprire tutta l’area di appartenenza. Consapevoli, magari, di non garantire rapporti assistenziali sostenibili e sicuri.
Insabbiare il declino della professione infermieristica, ad oggi, non è più possibile. Ogni professionista, nel suo ruolo, deve decidere se restare parte dell’iceberg o salire sulla nave del Ssn che è sì piena di falle, ma è anche la nostra unica speranza per un futuro con un diritto alla salute.
Martina Benedetti
Infermiera U.O. Terapia intensiva
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